Parliamo oggi di vaccini, naturalmente non sotto il profilo della politica sanitaria (chi scrive è consapevole dei doveri di non ingerenza che tuttora gli si impongono, e che questa rubrica cerca costantemente di rispettare), ma sotto quelli culturali e giuridici.
Il punto di partenza non può che essere quello scientifico-culturale: sotto questo profilo, va preso atto che gli organismi tecnico-scientifici del mondo sanitario, a livello nazionale e internazionale, concordano nell'individuare come obiettivo da perseguire quello della cosiddetta "immunità di gregge", cioè una copertura vaccinale elevata in una certa collettività, al fine di raggiungere quella soglia critica in grado di arrestare la circolazione dell'agente infettivo patogeno, con la conseguenza di proteggere anche quanti, in ragione di particolari condizioni di salute, non possono sottoporsi a vaccinazione (nel medesimo senso si espresse tre anni fa il Comitato nazionale di bioetica). Non paiono esservi ragioni plausibili per dubitare sulla fondatezza di queste posizioni, sostenute da evidenze scientifiche. Tali evidenze scientifiche – e qui si innesta la considerazione tecnico-giuridica – vanno tenute presenti dal legislatore, la cui discrezionalità incontra un doppio limite. Quello costituzionale, in quanto l'art. 32 Cost., secondo la giurisprudenza costituzionale (da ultimo, sentt. n. 268 del 2017 e n. 5 del 2018), «postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo, anche nel suo contenuto di libertà di cura, con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l'interesse della collettività». E quello tecnico-scientifico, dovendo le scelte normative in campo sanitario essere sorrette da adeguate evidenze medico-scientifiche, le quali sono caratterizzate da un'intrinseca dinamica evolutiva: dinamica di cui si è fatta carico, con apposita clausola di flessibilità, la normativa italiana del 2017, nella parte in cui ha introdotto un monitoraggio periodico che può sfociare nella cessazione della obbligatorietà di alcuni vaccini, a seguito di un miglioramento delle soglie di copertura.
Se da ciò possano derivare profili di illegittimità costituzionale di una eventuale futura normativa che, in assenza di nuovi ed evidenti dati medico-scientifici ed epidemiologici, intenda rivedere la scelta nel senso della obbligatorietà, non è questa la sede per prendere posizione. Si può comunque consigliare almeno cautela, posto che tra i fattori incidenti sulla tanto (e giustamente!) invocata qualità della legislazione stanno anche la doverosità e la possibilità di analizzare, prima di cambiarla, gli effetti di una normativa.
In conclusione: le scelte di politica sanitaria, pur discrezionali, non possono fare a meno di una preliminare riflessione di ordine giuridico e scientifico-culturale.
(la rubrica riprenderà il 30 agosto)
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