Va bene più Europa Magistratura inclusa
venerdì 7 marzo 2025
Un tempo si diceva: “ce lo chiede l’Europa”: quando un governo (nazionale, regionale, locale) non sapeva o non voleva giustificare talune politiche davanti ai propri connazionali, la tentazione di “scaricare il barile” era forte. E la somma di questi comportamenti non è stata senza conseguenze sulla diminuzione della condivisione, da parte di larghi strati della pubblica opinione, del sogno di un’Europa unita. Più di recente, anche a seguito della pandemia e della scelta europea di intervenire a sostegno delle situazioni nazionali, è cresciuta la consapevolezza che proprio così non era: prima di chiedere o imporre, l’Unione europea attende, incoraggia, dialoga. Insomma, forse non era saggio incolparla delle inerzie, o incompetenze, o cattive volontà nazionali. In questi giorni, a causa del terremoto geopolitico innescato dall’amministrazione Trump e delle preoccupazioni che ne conseguono, sta crescendo la richiesta di più Europa, dopo anni di euroscetticismo, e da più parti arrivano inviti a riprendere i sentieri interrotti, quale quello della Comunità europea di difesa, la cui preannunciata bocciatura da parte francese intristì, nel 1954, gli ultimi giorni di vita di Alcide De Gasperi. Volere più Europa oggi va certamente bene, ma rispettando almeno due condizioni. La prima è quella di metterci in una prospettiva storica corretta, superando, ad esempio, la sconsiderata equazione tra Europa e libero mercato: quest’ultimo è soltanto un pezzo dell’Europa, la quale, sin dagli inizi e cioè dai primi anni Cinquanta, si è caratterizzata per un equilibrio tra costruzione del mercato interno e preoccupazioni economico-sociali (l’economia sociale di mercato altamente competitiva, si sarebbe poi sancito). La seconda condizione è quella di valorizzare le indicazioni che provengono dall’Europa, intesa in senso lato, sia come Unione europea, sia come organizzazioni internazionali e organismi che la affiancano o la presuppongono. Come esempio, scelgo una questione di viva attualità nelle discussioni italiane di questi giorni: la cosiddetta riforma della giustizia (forse l’espressione è impropria, in quanto la riforma della magistratura l’hanno fatta i costituenti, e l’attuazione che ne è stata fatta nei decenni trascorsi può essere certamente corretta, ma non rovesciata nei suoi principi ispiratori, salvo che si vogliano rimettere in discussione i principi di fondo dell’impianto costituzionale). Quali indicazioni vengono dal contesto europeo? Può essere di utilità scorrere documenti ufficiali. Così, una Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa del 2010 (testo rilevante anche all’interno dell’Unione europea, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia Ue), prevede che almeno la metà dei componenti dei Csm debbano essere “scelti” da parte dei loro colleghi. Sotto altro profilo, numerosi documenti dei Consigli consultivi dei giudici e dei pubblici ministeri europei sottolineano l’importanza di procedere nella direzione di un maggiore collegamento tra magistratura giudicante e magistratura requirente. Ma, se è così, perché allora sorteggiare i membri del Csm e allontanare i p.m. dal perimetro della giurisdizione? Quali esiti positivi ci si aspetta? Perché non restare nel solco delle indicazioni “europee”? Sono state avviate, in questi giorni, “prove di dialogo” tra maggioranza politica e associazione dei magistrati. Ma il dialogo vero, ci spiegarono oltre vent’anni fa a Regensburg l’allora card. Ratzinger e il filosofo Jürgen Habermas, è mutuo apprendimento: se vado avanti comunque per la mia strada, incurante di ogni critica costruttiva, che cosa apprendo? © riproduzione riservata
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