Lampedusa, settembre 2008 - La motovedetta della Guardia Costiera salpa in soccorso di un barcone alla deriva, al largo. Sotto al sole cocente di mezzogiorno navighiamo veloci per mezz'ora. Finalmente un punto all'orizzonte. Eccoli, i naufraghi: un centinaio di uomini, donne, bambini su un gommone immobile fra le onde, che affonda sotto al loro peso. Mentre accostiamo cento occhi neri ci fissano, e nessuno dice una parola. Salgono sulla motovedetta, e tacciono: non uno che chieda acqua, o cibo. Solo una donna con un figlio in braccio piange, piano. Sfiniti i naufraghi, increduli d'essere salvi, dopo tre giorni - e tre notti, nell'infinita tenebra del mare.In lontananza si intravvede appena una linea all'orizzonte: Lampedusa. I naufraghi la fissano come un'apparizione. Uno tira fuori un tappetino fradicio e si inginocchia sul ponte, a pregare. Un altro da uno zaino estrae un Vangelo in inglese, che gocciola acqua di mare. Esausti, miserabili, gli stranieri ringraziano Dio d'essere vivi, e in Europa. Come, forse, i coloni irlandesi, inglesi, fuggiaschi magari, o galeotti, quando scorgevano la costa del Nuovo Mondo.Noi vecchi, noi avari di figli, noi ricchi; e giovani affamati popoli che sbarcano in Europa. Sul molo di Lampedusa la cronaca mi pare Storia, che incomincia, nuova.
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