Ancora pochi giorni fa, a Milano non avevamo paura. Almeno, molti non ne avevano. Il virus colpiva ancora poco, i bar avevano riaperto per l’aperitivo, a casa i figli invitavano gli amici. Poi, sabato notte, l’annuncio: Milano chiude, la Lombardia chiude. Leggere sullo smartphone e restare di sasso, col dubbio d’esser caduta in un film di apocalisse hollywoodiano.
Ma ancora i milanesi non ci volevano credere, ancora negozi aperti, e gente in giro.
Solo da ieri ho visto tutte le saracinesche sprangate, le vie deserte, le code davanti ai supermercati, quasi il cibo mancasse.
Allora ho sentito il freddo
addosso. E non solo per il bollettino dei contagiati e dei morti, non solo per la pena di quanti se ne vanno in ospedale, soli, senza nemmeno una carezza dei figli. Ma perché, da due giorni, davvero Milano mi sembra un’altra.
Trasfigurata. Come quando una persona cara, dopo una malattia, ti appaia diversa, distante.
Com’era bello uscire la mattina col cane, e salutare i padroni degli altri cani, e bere il caffè al bar cinese; e sapere che alle otto e mezza c’era Messa, anche se io, pigra, raramente ci andavo.
Com’era allegro il mercato di via Fauché con la sua abbondanza di frutta, così splendida che mi fermavo solo per contemplarla.
Com’era vitale, la corsa di impiegati e studenti sulle scale della metro. Quanto era bella, Milano: come ho fatto a non accorgermene?
E nel silenzio della mia strada vuota, stasera, quasi senza volerlo, ritrovarsi a pregare: che questa città, e l’Italia, tornino com’erano.
Ti prego: che di nuovo, all’alba del sabato, mi svegli il frastuono degli ambulanti che a forza di braccia montano le bancarelle del mercato.
Gridando in tutte le lingue: e, non so come, intendendosi tutti.
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