Oggi il sole delle 8.30 del mattino è finalmente riuscito a insinuarsi nell’ombroso cortile su cui si affaccia la camera da letto, ed è entrato, luminosissimo in una giornata limpida, dalla finestra. È un momento che attendo per un anno, e particolarmente in certe giornate d’autunno, opache di un grigio infinito: ho memoria, però, che alla fine di maggio il sole si alza abbastanza da scavalcare le case accanto, e penetrare nell’enclave ombrosa di questo cortile milanese. Lo sapevo, che il mio raggio stava arrivando. Lo aspettavo. Però stamattina, quando sono rientrata in camera, quell’oro che svelava il pulviscolo fluttuante nell’aria mi ha allargato il cuore. Sono andata alla finestra, a farmelo scivolare sulla faccia, sulle mani. (Sul letto si erano già piazzati i gatti, sdraiati, gli occhi beatamente socchiusi, ad adorare quel giovane sole). Ma quest’anno il raggio del 20 maggio mi commuove più intensamente, e, anche, mi immalinconisce. Quest’anno che la morte è passata in casa nostra, e, tanto, attorno, in questa città, nelle città vicine. La luce chiara di stamattina mi pare, istintivamente, antagonista della morte – o meglio, dell’atto, dell’estrema sofferenza del morire, perché ciò che è poi veramente la morte, non lo so. Non credo che nelle rianimazioni degli ospedali, a marzo, già potesse arrivare sui letti dei morenti un simile sole. Pure nell’incoscienza delle ultime ore, sarebbe stato forse di conforto: come una carezza, giacché in molti di carezze non ne hanno avuta nessuna. Poi, dopo forse mezz’ora, il raggio se ne è andato. Ritornerà domani, appena un minuto prima, fino al fulgore massimo, nel solstizio d’estate. Il sole di maggio ripercorre puntuale i suoi passi, nei millenni, mentre noi ce ne andiamo. Ma quest’anno mi pare una silenziosa promessa: di una più grande luce, di una fedeltà per sempre – oltre l’ardua soglia, che un giorno traverseremo.
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