Nel 1965, anno di chiusura del Concilio Vaticano II, il teologo Jean Daniélou pubblicò un volume dal titolo sorprendente, che diede adito a un dibattito acceso: L'orazione, problema politico. Come spiegato dall'autore, si trattava di un rischio calcolato. Così diceva: «La politica e l'orazione sono due realtà che non si ha l'abitudine di vedere confrontate l'una con l'altra. Eppure, se ho scelto questo titolo, l'ho fatto in piena coscienza, perché mi è sembrato essenziale sottolineare, in modo forse un po' provocatorio, che tra il dominio dell'uomo interiore e quello del progresso non dovrebbero esservi delle distanze radicali». Daniélou vedeva nella separazione tra religione e civilizzazione un doppio pericolo, che penalizza tanto l'una come l'altra. Una fede slegata dalla cultura si ritrova ben presto riservata a un'élite spirituale, e perde la condizione di accessibilità e universalità che è chiamata ad avere. Una cultura separata dalla fede resta incompleta, e conseguentemente non rappresenta più dimensioni e bisogni fondamentali della persona umana. Per questo Daniélou giudicava che una riflessione sulla preghiera e sulle sue pratiche non era un argomento solo interno ai credenti ma una questione di città e di cittadinanza. Sulla preghiera, Novalis scrisse una cosa molto chiarificatrice: «Il pregare è nella religione ciò che è il pensiero nella filosofia. Pregare è fare religione».
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