Intelligenze, plurale di sofismi incerti. Intelligenza, nucleo claustrofobico dalle connessioni imperscrutabili e inquiete ostinato come la sopravvivenza. Non ha ostacoli, si nutre di se stessa, cede controvoglia alla funzione in omaggio a un commercio promiscuo con il fare, nostro chiodo fisso. Gemella diversa del ‘nuovo’, che lo si intenda come smottamento inarrestabile di equilibri cognitivi o consolidamento progressivo della ipotetica casa del sapere. Intelligenza, intendere, evento circolare di causa e conseguenza che attraversa come un’onda corpo e mente, l’uno costellato di percezioni e deduzioni, volta celeste senza dimensione. Se intelligenza è “intendere” il vocabolario delle tecnologie va rivisto. Le intelligenze artificiali non intendono, della coscienza percorrono in lungo e in largo il telaio organizzativo, come corrieri che smistano infinità di pacchi anonimi depositati in giacenza al fermo point dell’assenza di significato. Le intelligenze artificiali apprendono, si dice. In realtà, si espandono in reti capillarizzate che vibrano di impulsi esanimi, non guadagnano l’identità, sia pure primordiale. Non giova impiantarle su strutture paracellulari o tessuti biologici. Un chip rimane un chip, meraviglia del niente in grado di servire ogni padrone. Specchi deformati dei team che le progettano possono diventare uno strumento di controllo grazie ai grandi numeri di una umanità diffusa e incredibilmente ansiosa di delegare loro un arbitrio che non potranno mai gestire in modo equo, perché equo, quando appare, fa rima con discernimento umano.Le intelligenze artificiali sono mappe, tracciati, diagrammi, filtrano i frammenti della conoscenza, che è dell’uomo, che intende, anche se a volte più o meno consciamente ci rinuncia. Le intelligenze artificiali nonintelligono un bel niente. Quello che fanno egregiamente è elaborare dati orizzontali,cancelletti che si aprono, si chiudono e veicolano il flusso di un’arma staminale indifferenziata a disposizione di qualunque fine e del suo contrario. Eticamente dipendenti da chi le utilizza, l’essere umano, così sono concepite ed è un fato cui non possono sottrarsi. Sono potenti, non intelligenti, il progresso ne impone l’utilizzo per analizzare i dati in modo più efficiente, in questo non vi è controindicazione, ma noi dobbiamo fare il resto, il discrimine, la scelta, fardello che contiene, forse, la promessa di un qualche compimento.L’intelligenza artificiale non vive, vegeta nella biosfera che le è consona, di leghe plastiche e metalliche, silicio e titanio, germanio, fosfuro di gallio e chissà quanti altri ancora. Innerva atomi di inesistenza conclamata cui solo la nostra fantasia può attribuire qualche barlume di coscienza. Vegeta in un coma irredimibile, walhalla sintetico e insensibile di spersonalizzazione cui aspiriamo per poterci liberare una buona volta dal dover decidere. La intelligenza artificiale non protrude dal supporto come invece noi viventi dai nostri arti, espansioni di coscienza in affitto temporaneo ora qui ora lì, un occhio, una mano un poro della pelle. È incastrata irrimediabilmente alla molecola inorganica del non essere. Immagino la serie che comincia oggi come un cilicio irrituale del fedele digitale perché non ceda all’anestesia di un mondo che procede a grandi passi verso la delega di responsabilità inalienabili predicando l’illusione della intelligenza artificiale cosciente, tritacarne in bit del diritto duramente conquistato a prezzo di sangue, non di qualche pur dispensioso circuito privo di esistenza.
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