Partire, un giorno qualsiasi della propria vita. Combattere in una terra straniera e non fare mai più ritorno. Febbraio 1941, Sudafrica. Un campo di sabbia e di tende stracciate dal vento, il sole brucia la pelle. Le guardie armate inglesi sono decise quando sparano ad altezza d'uomo, se i prigionieri troppo si avvicinano al filo spinato. La prigionia è dura, la sofferenza è tanta, la tristezza infinita. Le famiglie lontane. La vita a Zonderwater è appesa a un filo, non soltanto perché il nome significa “dove non c'è l'acqua”, ma anche per le ferree norme che governano la vita nel più grande campo di concentramento, quasi 100.000 internati italiani, a una quarantina di chilometri da Pretoria.
Molto cambierà, in meglio, nel 1943, quando arriva il nuovo comandante, il colonnello Prinsloo. I 2000 ettari di area si trasformano in trenta chilometri di strade, una quindicina di scuole, un ospedale capace di trattare 11mila pazienti l'anno, venticinque campi di calcio, palestre e ring per la boxe. Laboratori e spacci, orchestra sinfonica e di ottoni, manifestazioni culturali, compresa la pubblicazione di qualche migliaio di libri e un settimanale: “Tra i reticolati”. È una scommessa di rispetto per la persona che porterà quasi diecimila italiani, entrati nel campo da analfabeti, al giorno della liberazione in grado di sapere leggere e scrivere. In segno di riconoscenza, il colonnello Prinsloo, in seguito, fu insignito dell'“Ordine della stella d'Italia”.
Il sacrario di Zondewater è un piccolo cimitero dal verde prato punteggiato di 252 croci bianche. Dal febbraio 1947, quando questa “città reticolata” viene finalmente smantellata, due anni dopo la firma della pace mondiale, ogni 4 novembre, giornata delle Forze armate, è meta di pellegrinaggio, preghiera e commozione per la comunità italiana del Sudafrica.
Era una bella giornata di sole africano, quando entrammo a Zonderwater e nulla più, in quella pace di preghiera, faceva riemergere le ombre di un campo di concentramento, anche se nel piccolo museo sono raccolte le memorie e i reperti di quella lontana storia di guerra e sofferenza donate dagli ex prigionieri.
«È un dovere morale ricordare gli italiani che il destino ha voluto strappare alle famiglie lontane e mai più riabbracciate, sepolti con onore in Sudafrica», ci raccontò Emilio Coccia, l'anima di Zonderwater, nonché presidente dell'Associazione ex prigionieri di guerra. È anche grazie all'impegno di questo imprenditore italiano, da quarant'anni in Sudafrica, se Zonderwater è qualcosa di più di un sacrario alla memoria dei prigionieri catturati sui fronti di El Alamein, in Tunisia, Libia o nelle trincee d'Etiopia. Memoria viva di chi è morto per le ferite o la malattia.
Tre sono i cimiteri militari italiani in Sudafrica dove riposano i resti di 437 nostri caduti.
È strano il cammino dell'uomo, il suo destino e quello della storia passata che si mescola con il presente. Allora la guerra ci allontanava, oggi la pace ci avvicina. Nel 2007 il comandante dell'Aeronautica militare sudafricana, era un figlio di italiani, il tenente generale Carlo Gagiano. Di sangue italiano anche il maresciallo generale dell'esercito sudafricano Mario Brazzoli, figlio di un ex prigioniero di Zonderwater.
Fuori dal continente europeo, il Sacrario alla memoria dei caduti italiani più lontano dalla Patria, si trova a Murchison, 170 chilometri circa da Melbourne. Custodisce le spoglie di 129 italiani (in Australia, furono internati circa diciottomila prigionieri di guerra). Poi ce ne sono un'altra ventina sparsi per lo più in Africa, e in numero rilevante in Etiopia.
Sepolto in una Patria straniera. Molti caduti hanno potuto ricevere un nome e cognome, ma tantissimi altri sono rimasti senza alcuna identificazione incisa sulla croce. Soltanto una parola, che ancor più si accanisce sul dolore di una morte: “Ignoto”.
Due sacrari militari, a Castiglione dei Pepoli e Bolsena, raccolgono i resti dei soldati sudafricani morti combattendo in Italia. Il 4 novembre il ricordo li unirà tutti.
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: