«Attendi il mio arrivo alla prima luce del quinto giorno. All'alba guarda a Est». Siamo di nuovo al Signore degli anelli, al Fosso di Helm e ancora una volta il film diverge dal romanzo. A parlare è Gandalf il Grigio, che lascia i suoi compagni a combattere una battaglia disperata, ma li lascia con una promessa, nell'attesa del suo compimento. Il libro è più asciutto e vago: «Aspettatemi al Cancello di Helm!». Ma poco importa.
Qui importa la parola attesa, talmente decisiva per la nostra vita che alcune vite sono tutte e per intero dedicate all'attesa, come nel Godot di Samuel Beckett o nel Deserto dei tartari di Dino Buzzati. Poche parole sono tanto pluriformi e voltafaccia, dolci e amare, costruttive e distruttive. Per una mamma, l'attesa della nascita del bambino che custodisce dentro di sé è meravigliosa, le riempie la vita lasciando spazio a poco altro. Ma per la persona a cui è stata diagnosticata una malattia incurabile l'attesa è tutta da inventare, riempire o svuotare, maledire o pregare sperando che le ore e i giorni non passino nella solitudine, ma in compagnia di persone sensibili e generose, capaci di esserci o svanire, parlare o tacere.
Quando un centralino ti mette in attesa, sale l'ansia. «Non riagganciate per non perdere la priorità acquisita», grazie. I minuti passano, con la musichetta che gira in cerchio senza capo né coda facendo crescere l'inquietudine. La priorità: quanti ce ne saranno prima di me, uno, dieci o cento? Perché non me lo dicono? Forse perché la chiamata è a pagamento? L'attesa della partita è per il tifoso momento di ineffabile piacere e tremore. La sala d'aspetto del dentista non odora più di disinfettante come un tempo ed è un'attesa strana: vorresti che finalmente terminasse per metter fine al più presto alla fatale agonia che ti attende, ma vorresti anche non terminasse mai per evitare quell'agonia. C'è un bel lavoro per filosofi e psicologi. La sala d'aspetto ferroviaria non esiste più nei grandi scali, sostituita dalle librerie e dai negozi di profumi, generosi di tester di cui approfittare per rendere fragrante la vista del tabellone con i ritardi: 5 minuti, poi 15, quindi 30, 40, 60, infine non si sa, come alla Fortezza Bastiani, però alla fragranza agrumata.
L'attesa degli studenti, mentre il professore scorre con il dito il registro per pronunciare i nomi dei prescelti alla decimazione, satura l'aria della classe di panico, in grammatica nome astratto che però si annusa e si mastica. L'attesa dell'innamorata che alla stazione aspetta il treno del fidanzato è sovraccarica di amore, gonfia e strapiena e rigurgitante di tutte le cose che si diranno e faranno. Il cicloamatore è salito sull'alta montagna ficcando il cuore nelle pedivelle, ha adagiato la bici sul prato e adesso è lì, a pochi metri dal traguardo, sul bordo della strada che si inerpica, ha sudato sette casacche e sette ore e aspetta i ciclisti del Giro, una cosa che si consumerà in una manciata di secondi, pochi ma tantissimi perché ripensati per tutta la vita quei secondi diventeranno ore.
L'attesa è spesso figlia di una promessa, ma non per questo è facile da accogliere, domare, accettare. Gesù tra gli ulivi attende sudando sangue. Gli apostoli, tre giorni dopo, si sono dimenticati di attendere e l'assenza dell'attesa sta rendendo la loro vita insensata, insignificante, vuota.
Anche Aragorn, Theoden, Legolas e i loro compagni a Helm si sono dimenticati della promessa di Gandalf e non attendono più. Ma quando appare, sfavillante, mettendo in fuga gli Uruk terrorizzati, esclamano: aveva detto di attendere! Aveva detto che sarebbe giunto da Est, dove sorge la luce.
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