La prima volta è stato in Afghanistan, con la resistenza islamica. Vestito da mujaheddin, ma senza mitra kalashnikov in spalla. Io e la mia coperta di lana che faceva da letto, da asciugamano, da tovaglia e da ombrello. Allora erano i buoni, i mujaheddin armati dagli Stati Uniti in funzione anti-russa. Si marciava su e giù per montagne e vallate. Anche per dieci ore consecutive. Il battesimo del fuoco avvenne con l'imboscata a un convoglio dell'Armata Rossa. Una carica esplosiva nascosta a margine della strada e il primo veicolo che saltava per aria. Poi con la resistenza Eritrea, quando ancora era provincia dell'Etiopia. Nezanet aveva dodici anni, sbatteva le gambette magre per scacciare le mosche che si accanivano sulla sua carne viva. Bruciata da un bombardamento aereo al napalm etiope, distesa su una branda di fortuna all'ombra di una acacia fiorita, muta guardava dentro ai miei occhi e forse implorava: «Perché?».
A Mogadiscio attendevo lo sbarco dei marines americani e dei nostri paracadutisti della Folgore per una missione Onu che doveva aggiustare un crescente stato di caos e di gravissima carestia. I bambini morivano come fiori nati già appassiti. Ma ai signori della guerra locali questo non importava. In Somalia vita e morte non valevano una cicca di sigaretta. Ho visto la guerra del Sudan meridionale. A bordo di traballanti aeroplanini che parevano dei giocattoli, per sfuggire ai radar militari volavamo a bassa quota su bocche contorte dalla fame. Più difficile è stato il Ruanda del genocidio tutsi e hutu. Troppi morti nei miei occhi e troppi occhi imploranti aiuto, mentre venivano sospinti sul patibolo. Anche in Burundi, paura e terrore erano dovunque.
Lo Zaire era magnifico. Le sue foreste, la sua storia, la sua gente hanno nutrito il mio mal d'Africa. Ma anche qui la vita è difficile e non solo per i pericoli quotidiani degli animali velenosi o per la malaria che mi è toccata due volte. L'est dell'odierna Repubblica democratica del Congo, la regione dei Grandi laghi, è il regno delle bande armate. Ed era un Natale quando preso da una banda di questi pirati ho rischiato la fucilazione. Ancora mi chiedo quale miracolo mi ha salvato. I bambini soldato nel nord Uganda, Sierra Leone, Congo, Sudan facevano paura, nonostante la loro acerba età, con quei mitra che erano più alti della loro fronte madida di sudore nervoso. Qui nell'opulenta Europa, con la Jugoslavia che si dissolveva nel sangue di una guerra civile, ho visto stragi in ogni villaggio. Mentre invece a Sarajevo ogni giorno era una roulette russa con i cecchini.
Sono salito quasi sul tetto del mondo per vedere la guerra del Kashmir, conteso tra India e Pakistan. Poi a Timor Est e nelle isole Molucche in mezzo a cristiani e musulmani che si affrontavano all'arma bianca. In Orissa, quasi linciato da fanatici indù a caccia di cristiani. Nel nord della Nigeria, ai confini del pianeta kamikaze di Boko-haram. Sotto i bombardamenti israeliani a Beirut e quelli americani su Baghdad. A Damasco a scansare i mortai delle milizie insorte. In Libia ho perso un pezzo di me, quando a Tripoli hanno ammazzato il mio autista al-Mahdi, come un cane.
Mi fermo. Molto l'ho tralasciato. Qualcosa ho dimenticato. Ma non riuscirò mai a mettere una pietra sopra al dolore e alla sofferenza che mi hanno guardato negli occhi.
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