Due storie, oggi: una infinitamente triste e una di sconfinata speranza. Quella triste riguarda l’ennesima tragedia che coinvolge un ciclista sulla strada. Se n’è andato, in un modo orribile, un grande campione: Davide Rebellin, un ragazzo che aveva fatto della fatica il suo mantra, pedalando, da corridore agonista, fino a pochi mesi fa, superando il suo cinquantesimo compleanno. Una tragedia che ci ricorda che dal 2018 sono state investite e uccise oltre 1.100 persone in bicicletta. In media 225 ciclisti morti all’anno e non solo atleti, corridori, ma donne, pensionati, ragazzi che andavano a scuola, bambini. Una mattanza: in Italia, quando va bene, un ciclista muore investito ogni due giorni. Cinque anni fa abbiamo pianto Michele Scarponi, oggi piangiamo Davide Rebellin, due straordinari e famosi campioni, ma poche ore dopo Rebellin è morto, nello stesso orrendo modo, Manuel Lorenzo Ntube, un ragazzo di 16 anni, promessa del settore giovanile del Padova calcio. Chi sarà la prossima vittima? L’unico senso che possiamo dare a queste tragedie è quello di portare a termine una battaglia combattuta da anni, da tante persone che hanno perso i loro cari. Un’azione richiesta, dopo la tragedia di Davide Rebellin, anche con una lettera al Presidente della Repubblica, ai Presidenti di Camera e Senato, alla premier Giorgia Meloni, firmata da tanti sportivi e persone che amano la bicicletta. Quelle persone chiedono una legge di modifica al codice della strada che imponga la distanza di un metro e mezzo nell’operazione di sorpasso di un ciclista su rete stradale extra-urbana, esattamente come succede in tanti paesi europei: 150 cm che fanno la differenza fra la vita e la morte e che inizierebbero a cambiare la cultura di un Paese dove la strada è un campo di battaglia. La strada, invece, è di tutti e se tutti devono rispettare chi si muove lungo una strada, c’è una differenza: un ciclista magari fa spazientire un automobilista o lo fa tardare cinque minuti, ma un automobilista distratto, o nervoso, ha fra le mani un’arma che può uccidere un ciclista. Una legge di civiltà, che non ha connotazione politica e che è da fare il prima possibile, in memoria di Michele Scarponi, Davide Rebellin e di migliaia di altre vittime, senza aspettare la prossima tragedia.
La storia di speranza invece è quella di John McFall, nato quarantanove anni fa a Frimley, nel sud dell’Inghilterra. Quando aveva diciannove anni, nel 2000, perse una gamba anche lui sulla strada, in un incidente in motocicletta. Amputato sopra al ginocchio pensò, come ama dire il nostro leggendario Alex Zanardi, non a ciò
che aveva perso, ma a ciò
che gli era rimasto. Decise di diventare un atleta e otto anni dopo, rappresentando la Gran Bretagna, vinse una medaglia di bronzo ai Giochi di Pechino 2008, nella specialità regina dell’atletica leggera, i 100 metri, diventando una stella dello sport paralimpico. Le stelle, tuttavia, John le aveva in testa. Laureatosi in medicina iniziò a inseguire un altro sogno. Nell’immaginario collettivo quando si chiede a un bambino che cosa gli piacerebbe diventare da grande le risposte sono: un campione sportivo o un astronauta. John ha deciso di far diventare realtà entrambi questi sogni e, dopo un lungo e complicato percorso di formazione, è stato selezionato dall’Esa (l’Agenzia Spaziale Europea) per diventare il primo astronauta con disabilità della storia.
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