Nel primo libro dell'Eneide, Virgilio presenta Enea che con le sue parole e la sua esortazione tenta di sollevare a una migliore speranza i suoi compagni, sballottati per i mari già da molti anni da diverse vicende, e demoralizzati soprattutto perché un'improvvisa e inaspettata tempesta aveva colpito la flotta in maniera così grave, che sette navi erano state distrutte, risucchiate dai vasti gorghi o sbattute contro duri scogli. Quando, non senza commiserazione, leggiamo quelle parole, ci vengono in mente tutte le angosce, tutte le preoccupazioni, tutte le paure di quelle persone che, per la furia d'una guerra, accompagnate da un gran numero di bambini, di donne, d'infermi e di vecchi, confluiscono a torme in terre ignote dalla loro città distrutta da un'incursione nemica, dopo che tutte le regioni della loro patria sono state devastate; e chiedono a Dio perlomeno, se non ai mortali, salvezza e rifugio, con la speranza di poter trovare da qualche parte una nuova regione, dove i fati mostrino loro una sede tranquilla; dove Iddio conceda loro la possibilità di goder della pace e di condurre una vita degna d'un uomo: ci colpiscono l'animo infatti, quando leggiamo le parole d'Enea, i gemiti di tanti esuli e profughi, che anche oggi, costretti a percorrere lunghi tratti di terre e di mari, approdano ai nostri lidi, sperando di trovare misericordia e umanità.
I compagni d'Enea, che erano giunti sulle coste della Libia dispersi dai venti e dall'onde, arrestati dai guardiani delle coste, e portati davanti alla regina Didone, anch'essa esule, si lamentano con forza presso di lei dei modi inumani dei suoi soldati: dicono di non essere giunti alle coste dell'Africa con violenza, né con animo ostile. "Che razza d'uomini è questa?" chiedono, "E che patria barbara permette questi modi d'agire? Veniamo allontanati dall'ospitalità d'una spiaggia; ci fan guerra, e c'impediscono di fermarci sul lembo estremo della terra! Se disprezzate gli uomini e le armi mortali, almeno temete gli dei, memori di ciò ch'è lecito e non è lecito per le loro leggi!" Udite queste parole, Didone, quell'umanissima regina dei Cartaginesi, con volto dimesso, dice queste parole: "Sciogliete dal cuore, o Troiani, la vostra paura, lasciate ogni preoccupazione. La dura situazione e la novità del mio regno mi costringono a questi modi, e a custodire ampiamente i confini con guardiani." Poi continua: "Non abbiamo animi così insensibili, noi Cartaginesi, né il Sole aggioga i suoi cavalli così lontano dalla città tiria. Se per caso volete dirigervi in Italia con le navi, vi lascerò andare protetti dal mio aiuto, e v'aiuterò con nostre sostanze. Volete con me alla pari stabilirvi in questi regni? La città che sto costruendo è la vostra: tirate a secco le navi! Per me tra Troiano e Tirio non ci sarà differenza. Perciò, suvvia, giovani, entrate nelle nostre case. La sorte ha voluto che, sballottata anch'io in mezzo a molte simili disavventure, alla fine mi stabilissi in questa terra. Non ignara del dolore, ho imparato ad aiutare gli afflitti." Quando percorro con gli occhi umidi questi versi, mi chiedo: gli americani, gli europei tutti han dimenticato quanti e quanto grandi mali han sofferto i nostri antenati, che per vari motivi dovettero lasciare contro voglia le loro patrie? Siamo così insensibili? Speriamo che la memoria di quegli avvenimenti non perisca del tutto.
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