Dire, fare, baciare, lettera, testamento. La penitenza da cui ognuno di noi è passato nella giovinezza. «Devi andare da quel signore al bar e dirgli che è brutto forte!». «Fai le scale tre volte di fila, su e giù». Sei piani, mica pizza e fichi. La penitenza ai tempi del gioco fanciullesco non era puro apparire. Si faceva e basta, senza sovrastrutture, pensando al modo migliore per divertirci. Andando avanti con gli anni molto è cambiato. Il dire è spesso pilotato dalla necessità di conferma del proprio valore, che è anche normale: la formazione della nostra persona avviene attraverso un processo dove la conoscenza del mondo che ci circonda collide con il rispecchiamento sociale che, con inesorabile immediatezza, produce l’immagine esterna che gli altri hanno di noi. Ma l’ immagine che mandiamo agli altri è sempre quella reale? No, a volte pur di essere accettati cambiamo qualcosa. Per il fare la zuppa è la stessa, vedi voce dire. Baciare? Alzi la mano chi non ha mai provato in vita sua a cambiare l’ apparenza di se stesso per piacere al compagno di banco. «Tutti e due a stendere la merce più invitante sul bancone», intona Giorgia in una canzone. E poi lettera, la penitenza dove devi indovinare quello che ti viene scritto sulla schiena con un dito da qualcun altro. Nel gioco reale indovini o sbagli, magari ti prendi anche uno scapaccione. Nella vita che scorre spesso si va in direzione dei desideri di chi scrive, se ci interessa avvicinarlo o stupirlo. “Vivere per gli altri” non significa necessariamente andare sempre incontro a gusti o passioni o accreditarsi nel festival della loro esistenza. Abbiamo creato ogni sorta di strumento tecnologico che monitora minuto per minuto dettagli, gusti, tendenze. E’ molto più facile evitare argomenti scomodi piuttosto che rischiare di far naufragare un rapporto umano. Questa modalità, in un mondo dove essere è puro apparire, porta successo e reddito. Apparire è vivere per gli altri, essere è vivere per sé. Mi ricorda qualcosa vagamente. Ah sì, gli influencer.
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