Domenica scorsa, a 97 anni, se ne è andata Dana Zátopková, probabilmente la più anziana campionessa olimpica vivente, vincitrice nella gara di lancio del giavellotto ai Giochi di Helsinki nel 1952. Dana, tuttavia, era famosa anche per essere stata, per oltre cinquant'anni, la moglie di un altro eroe olimpico: Emil Zátopek. Vita struggente, romantica e resiliente la loro. Nati lo stesso giorno, il 19 settembre 1922, vinsero lo stesso giorno, il 24 luglio del 1952, una medaglia d'oro ai Giochi Olimpici. Trovatemi un'altra coppia così, nella storia dello sport. In realtà, i coniugi Zátopek, di medaglie olimpiche in totale ne vinsero sette: 5 ori e 2 argenti, ma quel pomeriggio di fine estate finlandese restò incredibilmente nella storia, come una favola di amore e di talento infinito.
Emil aveva fondato la sua carriera su un mantra: la fatica, intesa come un presupposto irrinunciabile e che si manifesta in una perenne smorfia di dolore sul suo viso, quando correva. Una maschera che lo caratterizzava in ogni fotogramma scattato sulle linee dei tanti traguardi tagliati per primo. «Non ho talento a sufficienza per correre forte e sorridere allo stesso tempo», diceva Zátopek, genialmente. Il capolavoro, l'impresa imbattibile per ogni altro umano, arrivò ai Giochi Olimpici di Helsinki. Emil Zátopek vinse le competizioni sui 10.000 e sui 5.000 metri e pochi minuti dopo la fine di questa seconda gara, mentre lui era da poco rientrato negli spogliatoi, Dana lanciò il suo giavellotto più lontano di tutte le sue avversarie e vinse la sua medaglia d'oro. Giorni di grazia, quelli, che spinsero Emil a partecipare, per la prima volta della sua vita, alla maratona vincendola, naturalmente, in 2 ore 23 minuti e 4 secondi.
Zátopek, icona del suo Paese, arringherà poi la folla durante la Primavera di Praga e firmerà il Manifesto delle duemila parole di Ludvík Vaculík. Duemila parole dirette a operai, contadini, impiegati, scienziati, artisti e contro quel regime che lo condannerà a lavorare in una miniera di uranio, per punizione.
«Correva come se avesse un cappio al collo – scriveva un cronista dell'epoca –, lo spettacolo più spaventoso dai tempi di Frankenstein», ma soprattutto si allenava con dei carichi sovrumani. Indossava degli scarponi militari per correre nella neve fino alle ginocchia e, come riportato nei suoi diari, succedeva che si caricasse Dana sulla schiena per fare le sue leggendarie “ripetute”, alternando velocità e resistenza. Una storia struggente, dicevo, di amore e di resilienza. Una vita che finisce, quella di Dana, che è un'ispirazione per tutti noi. Sembra che in casa Zatopek non si buttasse niente e che perfino quel giavellotto olimpico diventò il manico di una scopa custodita in cucina fino agli ultimi giorni.
In queste settimane, in questi mesi, saremo chiamati a intrecciare la nostra storia personale con quella stessa tenerezza e quella stessa resilienza per le nostre famiglie, per le persone più fragili, per la nostra comunità, per il nostro Paese. Probabilmente non avremo talento a sufficienza per correre forte e sorridere allo stesso tempo, ma verrà il giorno in cui quel traguardo si manifesterà lì davanti a noi. E tagliarlo insieme sarà ancora più bello.
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