In un grande parcheggio straniero, da piccoli in una spiaggia affollata, o anche solo in un pensiero. Perdersi è capitato a molti, probabilmente a tutti. A me è successo più volte. Ma ricordo che a notte fonda, in un quartiere buio e schifoso di Los Angeles, ho vagato mezz’ora nel panico totale prima di ritrovare la strada e il coraggio. Invece in spiaggia, da bambino, non avevo paura. Anzi, facevo il tifo perché non mi trovassero. Volevo scoprire cosa significasse confondersi con la sabbia, vedere fino a quando. E assaporare il gusto dolce del “ti perdono”, splendido bivio perché dipende da dove metti l’accento.
Nei pensieri è poesia per pochi. Altrove invece smarrire o smarrirsi sono verbi odiosi per tanti. Ci terrorizzano. E per questo ci armiamo di navigatori satellitari. I più convinti di se stessi seguono le intuizioni anche quando gli altri non si fidano di loro. Non chiediamo più la strada agli sconosciuti, Google Maps oggi è il nostro sentiero di molliche di pane al contrario. Senza, siamo fantasmi. Perdersi invece è quasi sempre avere un’occasione, guardare le cose da un’altra prospettiva. In un bicchier d’acqua ho capito che a volte bisogna farlo per ritrovarsi. Lasciarsi andare per riprendersi di nuovo, diversi, spesso migliori. In fondo, anche Cristoforo Colombo era uno che si era perso.
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