Rivedo come fosse ieri i tuoi occhi, a pochi istanti dalla nascita. Spalancati, mentre si dice che i neonati abbiano sempre gli occhi chiusi. E di un verde bruno, il verde degli occhi di mio padre.
Ti appoggiarono accanto a me, di lato. L’identica prospettiva degli occhi di mio padre nell’ultimo giorno, lui in barella, all’ospedale. Il colore degli occhi, e il taglio di quelle due istantanee: il cuore registrò tutto.
Che sbalordimento avevi negli occhi, bambino. Indescrivibile dev’essere, nascere: dal tepore buio del grembo al freddo, alla luce che abbaglia, all’aria che brucia nei polmoni. (Che, alla fine, passiamo per un analogo travaglio, in un venire al mondo, l’Altro mondo, di nuovo?)
Ma ho saputo, guardandoti, che ti conoscevo già, da un tempo oltre al tempo. Noi ci ritrovavamo: eri mio figlio, nei pensieri di Dio, da sempre.
E quando poi, incerta sulle gambe, sono venuta a contemplarti alla nursery, ho visto con stupore il rosso dei capelli. Da dove quel rosso? Da un bisnonno, Ferdinando, anarchico nella Parma del primo ‘900. Quel fulvo tornava in te, quasi cent’anni dopo, incredibile: siamo pensati, tessuti fino nei capelli.
Ora dormivi beatamente. E io, incollata alla vetrina della nursery come una bambina davanti a un negozio di giocattoli, scoprivo che avere un figlio è ritrovare un amore anteriore al tempo. Da sempre ti aspettavo, ed ecco, eri tornato.
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