Credo di aver capito perché le parole di Susanna Tamaro, anche nella nuova raccolta di saggi «L'isola che c'è» (Lindau, pp.176, euro 12), vanno così dritte al cuore, sono così vere: perché sono parole nutrite di silenzio. Lei stessa non si riconosce «nei panni dell'opinionista» eppure, confessa, «negli ultimi tempi ho sentito la necessità di fare alcune riflessioni che riguardano la nostra società e il momento che stiamo attraversando». E sono riflessioni espresse in parole che sgorgano dai silenzi di una vita non mondana ma non solitaria, a contatto con la natura nella campagna di Orvieto dove la scrittrice abita, con la possibilità di osservare «il momento che stiamo attraversando» con il distacco di chi si sente coinvolto, ma non travolto. «Io mi comunico del silenzio, cotidianamente come di Gesù. / E i sacerdoti del silenzio sono i romori, / poi che senza di essi non avrei cercato e trovato il Dio», ha scritto un poeta morto a ventun anni nel 1907. Ma non c'è niente di crepuscolare nelle riflessioni e nella scrittura di Tamaro, anzi: a volte ci sono scatti di denuncia e prese di posizione decise, ma in lei tutto scaturisce dall'ascolto del frastuono che si leva dalla contemporaneità (i «romori» di Corazzini), filtrandolo attraverso una coscienza libera e cristallina. Leggiamo: «La memoria – che è il fondamento della vita umana – è stata ormai in gran parte delegata alle macchine; scomparendo, la memoria ha trascinato con sé la complessità del pensiero». E conclude: «La posta in gioco è l'idea stessa di natura umana». Da questa angolazione la scrittrice riscopre e propone quelle che si chiamano le «evidenze etiche», intrinseche appunto alla «natura umana». E così può denunciare l'equivoco di una «tolleranza» che finisce per coincidere con il relativismo, in nome di un'idea di «mitezza» come forza per cambiare il mondo; si ribella alla «zoologizzazione dell'essere umano», e alla «pornografizzazione della società», nonché alla perversione della «gogna mediatica»; dichiara che, nonostante alcune (poche) valide conquiste del femminismo, «la centralità della nostra vita di donne è lo spirito di maternità. Ripartire da lì»; e se «morte e vita intessono costantemente i nostri giorni», «l'antidoto alla morte è proprio la vita, dove vita è sì il generare fisico ma anche il generare interiore – il rigenerare, il far nascere le cose e farle nascere nuovamente. Vale a dire sottrarre la vita sia al ghigno del fato che alla burocrazia delle sentenze, affidandola alla straordinaria complessità del cuore umano». Nel capitolo che dà il titolo al libro la scrittrice, che non si considera «uno storico né un sociologo», fa una diagnosi spietatamente lucida del nostro disagio attuale: «Sono convinta che, alla base della grande crisi che stiamo vivendo, ci siano proprio quelle due guerre [mondiali] così estese, così devastanti, così ravvicinate. Troppa follia, troppe morti, troppe lacerazioni. Sì, nel Dna della maggior parte di noi è impresso un segno che non sarà mai rilevabile da nessun laboratorio, il segno di Caino. Ed è da quel segno inconscio e ignorato che hanno cominciato a levarsi i miasmi di un nuovo tipo di distruzione. L'uomo ha cominciato a disprezzare sé stesso e a distruggere, con modi più o meno sofisticati, tutto ciò che, fino ad allora, era stato il fondamento della sua esistenza». In questo naufragio, «l'isola verso la quale dobbiamo nuotare ha una forma un po' strana, da lontano sembra quella di due tavole. Affidarsi al Decalogo, in questa notte priva di stelle, significa risanare il nostro tempo, offrendolo a quella virtù straordinaria e antica che è la pazienza. Perché solo la pazienza trasforma il tempo vuoto nel tempo fecondo della costruzione». Bel libro, che restituisce alla letteratura la sua funzione di interprete della società.
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