Il fumo fa malissimo. Lo ammettono, rassegnati al loro destino, anche gli amanti più accaniti delle sigarette. E lo sanno bene i responsabili delle politiche sanitarie degli Stati e degli organismi sovranazionali, come l’Unione europea. Più di tutti se ne preoccupa l’Organizzazione mondiale della Sanità, che da sempre esorta a combattere un vizio davvero universale. L’Oms è riuscita, 15 anni fa, a varare una Convenzione quadro che obbliga tutti i 183 Stati aderenti a impegnarsi a fondo contro il tabagismo. In questo accordo figura una norma particolare, l’articolo 5.3, che vuole impedire alle industrie del tabacco di limitare o condizionare i governi in questo compito. La convenzione elenca scrupolosamente i comportamenti da adottare per tagliare le unghie a “Big Tobacco”, come viene chiamata la super lobby internazionale del fumo, l’equivalente di “Big Pharma” per i medicinali.
Questo perché da tempo i custodi della salute umana si sono accorti che non basta imporre divieti, impedire pubblicità esplicita alle sigarette o far mettere scritte e immagini “minacciose” sui pacchetti per dissuadere i consumatori. Ne sono consapevoli le autorità di Bruxelles, impegnate in una sorta di interminabile gioco a guardie e ladri con gli “gnomi del tabacco”, abilissimi nell’escogitare senza sosta nuovi stratagemmi per influenzare le decisioni dei 27 Stati membri e ingraziarsi il “sentiment” delle opinioni pubbliche. L’hanno fatto con donazioni al tempo della pandemia, con campagne finanziate per ripulire le strade dai mozziconi e per piantare alberi e perfino sostenendo progetti contro il lavoro minorile.
In base alla Convenzione quadro dell’Oms, pratiche come queste andrebbero per lo più impedite, così come le elargizioni a partiti o singoli politici, le consultazioni riservate di imprese del settore durante l’elaborazione di provvedimenti, la libera circolazione dei lobbisti del fumo nelle sedi parlamentari o di governo. Il lavoro degli “influencer” in questo settore è così capillare ed invasivo che un organismo internazionale, nato appositamente per controllare il rispetto delle regole, ha elaborato un “indice di ingerenza” dell’industria del tabacco nelle scelte politiche e legislative. Nei giorni scorsi è stato pubblicato il secondo rapporto riguardante la regione europea dell’Oms, dove si calcola che ancora oggi una morte su sei è diretta conseguenza del fumo. Dal report emerge che, rispetto a due anni fa, oltre la metà dei Paesi presi in esame ha peggiorato la propria posizione nel “ranking”, risultando ancora più “porosi” agli assalti.
Sulla carta, l’Unione europea come tale, nelle sue istituzioni, conosce meccanismi di sorveglianza e regole abbastanza stringenti. Ma in concreto i comportamenti dei funzionari e dei parlamentari devono fare i conti con le pressioni e l’attivismo instancabile dei lobbisti di Tobacco Europe (la società che rappresenta gli interessi delle principali imprese nel continente), che non per niente ha la sua sede di Bruxelles a poche centinaia di metri dagli “euro palazzi” (mentre Philip Morris lavora “in proprio” appena mezzo chilometro più distante). Il nodo rimane quello della trasparenza dei lavori, dei controlli su chi entra e chi esce dalle stanze dove si scrivono i regolamenti, di “chi invita chi”. Il buon esempio, si sa, deve venire dall’alto. Senonché ad aprile scorso il Garante dei diritti dei cittadini Ue ha chiesto alla Commissione di chiarire certi suoi contatti riservati con i lobbisti del tabacco. Ha fissato metà luglio come termine per avere risposte. Siamo a fine novembre e tutto tace.
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