Caro Avvenire, c’è una questione che mi sta creando un grande dissidio interiore. Essendo un autodidatta di pianoforte, tra i miei studi c'è un'opera di tecnica pianistica di Alfred Cortot, grandissimo pianista francese del secolo scorso. Il problema nasce perché ho scoperto che è stato schierato dalla parte del regime collaborazionista di Pétain durante l'occupazione nazista. Inoltre, ha tenuto vari concerti a Berlino. È possibile scindere l’artista dalla sua vita e dalla sua posizione di fronte all’occupante tedesco, responsabile della morte di decine di migliaia di ebrei francesi? Devo smettere di studiare su quel testo?
Gaetano Ficarra
Caro Ficarra, affidarsi a una redazione giornalistica per un quesito di coscienza non è comune. Capisco tuttavia che può non essere facile trovare interlocutori su un tema simile. Non solo perché la figura di Alfred Cortot (1877-1962) è sfaccettata e la sua vicenda complessa da decifrare, ma anche perché - immagino - non molti possiedono una sensibilità acuta e sviluppata come la sua, capace di chiedersi se deve cambiare manuale dato che l’autore potrebbe essere stato complice di gravi crimini. Mi azzarderei a dire che già questo suo nobile scrupolo la assolve se continuerà a studiare con quel “maestro”.
Entrando nella questione, il primo tema è fattuale. Cortot è stato un collaborazionista nel senso pieno, ovvero sapeva delle deportazioni verso i lager e ha continuato a operare come esponente culturale di punta del governo di Vichy? Non è chiaro, per quello che consta. Certo, non ha partecipato ad atti politici (né militari). Ha dato però lustro a quell’esperienza esecrabile con la sua musica. Lo fece per preservare l’arte francese, disse poi. E, sebbene prima arrestato e poi riparato in Svizzera, dopo la guerra tornò a suonare nel suo Paese, acclamato dal pubblico. Alcune fonti dicono anche che aiutò direttamente alcuni ebrei a fuggire e che fosse amico di Leon Blum, il primo leader ebreo francese.
C’è poi l’aspetto generale del rapporto tra l’opera d’arte e il suo creatore. Mi viene qui in mente, per contiguità storica, il caso di Louis-Ferdinand Céline, pseudonimo di Louis Ferdinand Auguste Destouches, geniale scrittore anch’egli vicino al generale Pétain e sicuramente, almeno per un periodo, filonazista e antisemita. Il suo romanzo Viaggio al termine della notte è un’opera cupa e pessimista ma che rappresenta un monito indimenticabile contro l’orrore e l’insensatezza della guerra. Dovremmo privarcene a motivo delle convinzioni di chi l’ha scritto? Il dibattito è aperto. Propenderei per il no.
Oggi abbiamo una nuova versione di questo dilemma con gli approcci della cosiddetta cancel culture. Capolavori indiscussi sono opere di persone che appoggiavano la schiavitù o la discriminazione dei neri e delle donne: non sono intrisi di quelle idee e quindi da condannare all’oblio? Dipende. Possiamo imparare qualcosa da quelle pagine o da quelle immagini? Se sì, è un errore rinunciarvi. E poi le vite perfette sono rare. Chi ha avuto colpe può avere fatto pure cose buone. Caravaggio ha ucciso un uomo in una rissa e ci ha consegnato dipinti immortali.
In conclusione, per quel che vale il mio parere, le direi di seguire Cortot come grande pianista, nella consapevolezza che potrebbe non essere stato un santo. L’importante è che la musica rimanga un’espressione alta dell’essere umano, non cieca alla realtà che la circonda e mai asservita, seppure bella in sé, a fini spregevoli.
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