sabato 30 settembre 2017
Insieme a Pechino, era il grande sogno di Giovanni Paolo II. Forse ancora più grande, perché al di là della enorme forza simbolica che avrebbe avuto una sua visita nella capitale cinese, il viaggio a Mosca avrebbe portato con sé una carica ecumenica ed ecclesiale dirompente. Furono compiuti passi significativi perché si potesse realizzare quel viaggio che, senza alcun dubbio, avrebbe finalmente e plasticamente dato forma a quella «Europa a due polmoni», Oriente e Occidente, che nella visione di papa Wojtyla era dimensione fondamentale del vecchio continente. Alla fine non ci si riuscì, anche se i passi e i gesti compiuti non sarebbero mai stati cancellati, come non lo sono stati.
Dopo di allora, tanti altri passi e tanti altri gesti sono stati compiuti tra Roma e Mosca. Martedì scorso la visita a papa Francesco del metropolìta Hilarion, "ministro degli esteri" del Patriarcato di Mosca, è stato solo l'ultimo in ordine di tempo. Nuova tappa di quella «unità che si costruisce camminando» di cui papa Bergoglio sottolineò il valore imprescindibile in occasione del suo incontro all'aeroporto dell'Avana con il patriarca Kirill, il 12 febbraio 2016. Del cammino di cui stiamo parlando fu quello il momento sicuramente più alto e significativo, il momento in cui la distanza tra Roma e Mosca si è fatta più breve e la separazione si è avvertita in maniera più dolorosa. «Abbiamo parlato come fratelli – disse in quell'occasione papa Bergoglio –, abbiamo lo stesso battesimo, siamo vescovi. Abbiamo parlato delle nostre Chiese e ci siamo trovati d'accordo sul fatto che l'unità si costruisce camminando».
Vero, verissimo, quei passi ancora si tengono distanti dal cuore delle due Chiese. E, per questo, ci sono molte ragioni, storiche e contingenti, a partire dalla questione ucraina e dalla maldigerita – da Mosca – realtà dei greco-cattolici, fino alle tutt'altro che piccole e assai complesse questioni interne all'ortodossia, che ancora appaiono lontane dall'essere risolte. Quello che tuttavia affiora con ormai innegabile evidenza è la consapevolezza ormai comune di cattolici e ortodossi che in un mondo lacerato da ogni possibile fomento di divisione la testimonianza comune dei credenti in Cristo, la loro capacità di parlare a una sola voce per testimoniare un autentico messaggio di unità e pace, non solo è necessaria ma, in qualche modo, decisiva.
Non è un caso se negli ultimi anni i rapporti tra la Chiesa cattolica e l'ortodossia abbiano subìto un'evidente accelerazione. Kirill e Bartolomeo, patriarca di Costantinopoli, così come Francesco, e prima di lui Benedetto XVI con altrettanta determinazione, sono convinti e anzi certi che le lacerazioni del nostro pianeta non possano trovare risposta solo nella politica, ma, al contrario, abbiano assoluta necessità di un "surplus" di evangelizzazione rispetto alla quale le divisioni tra i cristiani – non parliamo delle opposizioni e dei contrasti – possono solo avere effetti devastanti.
«Nel mondo contemporaneo, multiforme eppure unito da un comune destino – si legge nella dichiarazione comune firmata da papa Bergoglio e dal patriarca Kirill a Cuba – cattolici e ortodossi sono chiamati a collaborare fraternamente nell'annuncio della Buona Novella della salvezza, a testimoniare insieme la dignità morale e la libertà autentica della persona, "perché il mondo creda". Questo mondo, in cui scompaiono progressivamente i pilastri spirituali dell'esistenza umana, aspetta da noi una forte testimonianza cristiana in tutti gli ambiti della vita personale e sociale. Dalla nostra capacità di dare insieme testimonianza dello Spirito di verità in questi tempi difficili dipende in gran parte il futuro dell'umanità».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI