domenica 2 ottobre 2011
Un piccolo viaggio, sei ore di marcia su un antico tracciato, con tre cavalli; ne porto uno alla capezza e mi accompagna un amico. I cavalli sono ariosi, scalpitano; il battito ritmato degli zoccoli sottolinea le poche parole scambiate invitando al silenzio; meglio assecondare il ritmo del cammino, assaporare ciò che nel mondo permane a discapito del brusio costante, con scoppi di fragore, a cui siamo assuefatti. Risaliamo il fondo di una valle incontaminata, la strada costeggia il fiume, intorno un'unica faggeta solcata da rigagnoli e torrenti. Pare non sia successo niente, qui, dal tempo della Creazione ma la valle era già trafficata nella preistoria. Dalla seconda metà del 1500 vi arrivava, a dorso di mulo, il materiale ferroso dall'Isola d'Elba e, grazie all'abbondanza di legname ed acqua, veniva fuso. Le Ferriere producevano palle per cannone, armi bianche, utensileria varia, fino a che nel 1650 le vicende della storia, sotto forma di soldataglia francese, le distrussero. Alla fine del 1800 l'intera valle era un prato pascolo ombreggiato da grandi faggi. Nuovamente disboscata dopo la prima guerra mondiale, per assecondare le esigenze di energia, in cinquant'anni di abbandono ha riacquistato un aspetto selvaggio e primitivo.
Nessun rumore, non un'anima in giro. Svalicando compare all'orizzonte il mare e se ne percepisce l'odore ma è il tempo di attraversare una radura poi il bosco si richiude sopra e intorno. Una ripida discesa e comincia il castagneto: ecco la civiltà dei monti, il lavorio quotidiano dell'uomo, passo su passo, gesto su gesto a contenere la forza della natura e piegarla alle necessità umane. Non bastasse l'occhio è l'orecchio a confermare la solidità della messa in opera. Procediamo su un'antica mulattiera, incassata tra due muretti a secco, ancora perfettamente selciata. Il battere degli zoccoli ferrati sulle lastre di arenaria assume il contorno di una partitura per cimbali e il viaggio diventa processione, acquista dimensione sacrale. Siamo entrati in un tempio eretto da una civiltà scomparsa, laboriosa e devota. A perdita d'occhio un reticolo di muretti a secco; ogni sasso è stato valutato, soppesato e posizionato; dove necessario, i motivi sono diversi e tutti validi, è stata eretta una maestà.
Non posso dire – non c'è un'anima – tutto è anima, tensione dello spirito in intimo colloquio con le generazioni che mi hanno preceduto. Gli stessi corpi, gli stessi passi, preoccupazioni e pensieri non troppo dissimili; lo stesso sostare davanti la stessa Immagine Benedetta per recitare la stessa Ave Maria. – Che la Madonna vi accompagni – si augurava a chi si trovasse sulla strada. L'augurio vale ancora oggi anche se tutto è spostamento e ben poco resta del viaggio.
Tornato a casa mi sono messo a sfogliare La strada di Cormac McCarthy, lo scrittore contemporaneo capace di far breccia nel profondo del mio immaginario. L'avevo letto, riletto, appena uscito; era inverno, appaiavo due poltrone fianco la stufa, una per me e una per mia madre che scivolava velocemente nel buio della malattia. Imparavo a prendermi cura di Lei che si era sempre presa cura di tutti noi. Le tenevo la mano, la rassicuravo, la stimolavo; forti di quel legame maternale filiale che trova corrispondenza e completezza nel paternale filiale. Un bene prezioso, comunque, che solo la quotidianità dei gesti e dell'affetto può illuminare. Anche quando tutto rabbuia e sembra persa ogni speranza. E tu come lo sai. Lo so e basta. Niente lega la mia strada a quella di McCarthy. Da una parte poche decine di chilometri, andata e ritorno, su un Appennino d'incanto. Dall'altra il rischioso cammino di un padre ed un figlio bambino attraverso un mondo distrutto e distruttore, cannibalizzato, verso l'oceano in cerca di chiarore e tepore. Ma usiamo le stesse parole (Lui, ovvio, molto meglio di me) sappiamo di malvagità e tenerezze. E portiamo il fuoco. Si. OK.
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