D'estate per andare al mare passavamo per l'autostrada della Cisa, da Parma a La Spezia. Nei giorni feriali solo grossi Tir marciavano lenti e ansanti, sulla corsia di destra. Era ogni anno l'inizio di luglio, quando a mezzogiorno il sole allo zenit annulla le ombre e immobilizza il paesaggio come in un incantesimo, nell'aria torrida. L'autostrada percorre la valle del Taro, parallela alla Statale che sale al passo della Cisa, tra Emilia e Liguria. Su quella stessa strada mio padre, ragazzo, saliva in bicicletta da Parma. Da solo, per il gusto di pedalare con le sue giovani gambe, di far forza sui pedali e strappare metri alle curve ripide. Di sudare e bere acqua fresca dalla borraccia, bagnandosi la faccia.
Allora mentre mio marito guidava io mi immaginavo, nel paesaggio solitario che avvicina all'invisibile confine tra la pianura e il mare, un ragazzo bruno e magro che pedalava sulla vecchia Statale. E la dolcezza della terra nera e grassa di Parma cedeva ai campi brulli e poi alla montagna, roccia avara. E infine su, al passo, vittorioso, con i polpacci duri di fatica. Guardare giù, nella foschia che vela il mare, e respirare un altro mondo, un altro odore.
Potere vederti ancora, pensavo, per un istante solo. Ma il tempo è una divinità sorda, che non concede spiragli nella sua immane mole.
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