«Ma come si permettono?!». Così si sarà chiesto più di un funzionario al ministero delle Finanze di Pechino quando mercoledì si è visto recapitare l’ultimo giudizio dell’agenzia di rating Fitch. La più piccola delle tre (le altre due sono Moody’s e Standard & Poor’s) ha osato infatti mettere “in osservazione” il giudizio sul debito della grande Cina, storicamente tra i primi della classe in fatto di rischio sovrano.
Dal punto di vista tecnico, Fitch non ha bocciato i titoli di stato cinesi e non li ha ancora fatti scendere nella sua scala dei giudizi: sono e restano nella categoria A+, ovvero la terza migliore a partire dall’alto. Tuttavia, l’agenzia ha cambiato l’outlook, cioè le previsioni di evoluzione: da stabile è diventato negativo, lasciando così presagire un possibile deterioramento nei prossimi mesi e, a quel punto, la conseguente bocciatura. Immediata la reazione del ministero delle Finanze cinese, che ha definito la decisione «deplorevole». E come davanti a un brutto voto, nel mirino è finito il professore: «È chiaro dai risultati che il sistema di indicatori della metodologia di rating sovrano di Fitch non riflette in modo efficace e proattivo» gli sforzi della Cina per promuovere la crescita economica, ha dichiarato Pechino in un commento ufficiale.
La polemica conferma che il rating, ovvero il giudizio sul merito di credito di un’azienda o uno Stato come in questo caso, resta un nervo scoperto, questione di orgoglio oltre che di prezzo per chi emette i titoli in questione. Ma più del battibecco, vale la pena vedere i motivi che lo hanno generato, come raccontato da Paolo Alfieri su “Avvenire” in settimana: «Gli ampi disavanzi fiscali e l’aumento dell’indebitamento pubblico negli ultimi anni hanno eroso i margini fiscali dal punto di vista del rating», ha spiegato l’agenzia Fitch aggiungendo che «è sempre più probabile che la politica fiscale svolga un ruolo importante nel sostenere la crescita nei prossimi anni, il che potrebbe mantenere il debito su una tendenza al rialzo». Tradotto: tanto, troppo debito anche per la Cina, che nella corsa è ancora molto indietro rispetto ai livelli di Stati Uniti, Giappone o buona parte dell’Europa, ma avanti di questo passo rischia di colmare in fretta le distanze. Basta pensare che nel 2019 il debito pubblico era al 38,5%, l’anno scorso era salito al 56,1% e le previsioni per il prossimo portano al 61,3%.
L’Italia, con il suo debito-monstre al 137,8% del Pil, corre meno soltanto perché è già arrivata su un altro pianeta: il documento di economia e finanza approvato sempre in settimana lo vede proiettato su un valore assoluto di 3mila miliardi, e prima del 2026 non c’è di fatto speranza che possa scendere. Non a caso il nostro rating è ben al di sotto di quello cinese, giusto a un paio di gradini dal livello “spazzatura”, quello che automaticamente spinge a vendere buona parte degli investitori finanziari.
Come per la Cina, anche per l’Italia ci sono due soli modi per invertire la rotta: frenare il debito o accelerare la crescita. Difficile, viste le incertezze macro e micro, fare previsioni anche su quest’ultima: in Italia, dove il Governo punta a un +1% del Pil nel 2024 ancora tutto da costruire, ma anche in Cina. Anche qui si viaggia a una velocità diversa, ma la volatilità è la stessa: a pochi giorni dalla pagella di Fitch, che sul Pil ha abbassato le previsioni al +4,5% per il 2024, il giorno dopo gli economisti di Goldman Sachs hanno alzato le loro stime s dal 4,8% al 5 per cento.
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