A maggio si andava a Chiavari, a trovare la nonna Ebe. Nell'ampio antro ombroso della Stazione Centrale di Milano mi pareva d'essere nel ventre di balena. La mano di mia madre mi tirava, quasi la rincorrevo. Avevano odore di polvere i vecchi scompartimenti di velluto. Accanto al finestrino, il naso incollato al vetro, aspettavo il fischio di partenza.
Lo strabiliante snodarsi di binari in mille scambi che scattavano in uno schiocco di metallo mi affascinava. Come il treno conosceva la sua strada, in quel labirinto? Poi si allargava la campagna padana, nel verde esuberante di maggio. Alle fermate, dal finestrino fiotti di profumo d'erba, di terra, che golosa inspiravo.
Cominciavano le gallerie. Buio fitto, odore di carbone. Luce. Di nuovo buio. Un altro tunnel nero. Come se per arrivare al mare si dovesse cambiare cielo, o nascere di nuovo.
Capivo che il mare era vicino quando il treno si fermava in piccole stazioni e dalla massicciata, tra le crepe, sporgevano margherite e bocche di leone, sgargianti (a Milano, le margherite non avevano quel colore).
Poi, d'improvviso, eccola: la linea blu all'orizzonte. Mi pareva un miracolo: a due ore da Milano c'era il mare, col suo vento di sale. Scendevo dal treno e lo respiravo, ebbra. Attorno fremeva già l'estate. Avevo forse cinque anni: quanto ero viva, e inconsapevolmente grata d'esser nata.
© Riproduzione riservata