Riccardo Riccò è un ex ciclista professionista, soprannominato "il Cobra", capace di vincere tre tappe al Giro d'Italia, fra le quali una in arrivo alle Tre Cime di Lavaredo, e di arrivare secondo assoluto nella classifica finale del 2008, anno nel quale partecipò anche al Tour de France, vincendo due tappe anche lì. A venticinque anni la sua carriera sembra in costante ascesa, fino al 17 luglio quando, proprio nel corso di quel Tour, la gendarmeria francese gli notifica una positività all'Epo. Licenziato in tronco dalla sua squadra (che per lo scandalo ritira tutti i suoi ciclisti dalla corsa) Riccò confessa alla Procura italiana e viene squalificato per venti mesi.
Nel 2010 torna alle gare e torna a vincere, ma nel febbraio 2011 accusa un malore causato da un blocco renale, a sua volta causato da un'autotrasfusione di sangue conservato (male) in frigo. Riccò nega, ma il mondo del ciclismo si esprime in maniera durissima nei suoi confronti e il ciclista subisce, il 19 aprile 2012, una squalifica di dodici anni da parte del tribunale antidoping. Carriera finita. Per alcuni anni scompare dalla scena, poi nel 2018 pubblica un libro il cui sottotitolo è "Confessioni di un ciclista pericoloso", dove riflette sul suo passato, denuncia le immani fatiche e le richieste sempre più pressanti che possono condurre un ciclista a cercare soluzioni nel doping con un rischio smisurato per la propria salute, come quando si fanno autotrasfusioni con sangue conservato nel frigorifero della cucina a una temperatura sbagliata tanto da farlo "marcire", come nel suo caso.
«Come polli d'allevamento, ci alleniamo e ci "curiamo", qualcuno per vincere, i più semplicemente anche solo per tenere il passo, stare a ruota. Solo col doping non vinci. Senza doping non vinci. Questa è la regola aurea del gruppo».
Di nuovo silenzio fino all'estate del 2020, quando rilascia un'intervista al "Corriere della Sera" in cui dice: «Ero un bullo, ho pensato al suicidio», ma poi racconta di cose belle, di una nuova vita, di un matrimonio salvifico, di un'attività da imprenditore nel settore della gelateria. Quel ragazzo che il ciclismo non avrebbe mai voluto vedere dice: «Ho buttato via la mia carriera, ho commesso degli errori, ho pagato». Insomma, la storia resta triste, ma con una sorta di riscatto, un'occasione di ripartenza. Poi, una manciata di giorni fa, l'ennesimo clamoroso autogoal: un post su Facebook (poi cancellato) che con un linguaggio non esattamente oxfordiano, si riferisce al vaccino anti-Covid: «Io faccio quello che mi pare del mio corpo. Nessuno mi può obbligare a fare sul mio corpo una cosa che potrebbe avere effetti negativi» e sentenzia: «Voi fatevi pure iniettare quella m...a!».
Da queste colonne tantissime volte ho raccontato di sportivi come esempi virtuosi. Questa volta (e lo faccio esclusivamente per provare a trasmettere un messaggio, diciamo così, efficace) racconto questa vicenda aberrante, al di là di qualsiasi tentativo di comprensione e minimo principio di coerenza. Riccò è stato libero in passato di fare del suo corpo ciò che voleva (salvo poi pagarne le conseguenze sia in termini di carriera sportiva e di rischi per la propria salute). Oggi, per paradosso, è quasi da ringraziare: perché la vicenda legata a questo suo infelicissimo messaggio, chiarisce in un solo colpo tutte le assurdità e le contraddizioni delle tesi no-vax.
Incredibilmente, involontariamente e contrariamente ai suoi desideri, questo ex atleta è diventato latore di uno dei più efficaci messaggi pro-vaccino, al netto di chi (perché qualcuno c'è sempre) preferisce l'ebbrezza di salire su un taxi il cui autista è ubriaco fradicio, chiedere consiglio per investire tutti i propri risparmi ad Arsenio Lupin o farsi consigliare una ricetta vegana dal macellaio sotto casa.
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