Ammiro molto l’incoscienza di chi crede di sapere tutto o quasi. Avete presente il classico tipo col sorriso smagliante e la verità nel taschino della giacca blu? Quando mi trovo davanti a personaggi che credono di sapere tutto, e di saperne più di te, mi chiedo sempre: “ma questo ci è o ci fa?”. Scomodiamo Socrate e il suo famoso detto «so di non sapere», a lui attribuito attraverso Platone. Il filosofo racconta che la vera saggezza inizia con la consapevolezza della propria ignoranza. L'ignoranza qui non è da considerarsi come mancanza di conoscenza ma come il riconoscimento sincero delle nostre limitazioni nell'acquisizione di conoscenza assoluta. È il riconoscimento che il sapere umano è limitato, sempre in evoluzione, e che non possiamo mai pretendere di avere tutte le risposte. Questa presa di coscienza può essere vista come umiltà intellettuale, virtù che ci spinge a porci domande, a cercare, a esplorare le diverse prospettive. Credo però che il «so di non sapere» sia anche una chiamata all’empatia e alla comprensione. Quando riconosciamo la nostra ignoranza diventiamo più aperti alla possibilità di metterci nei panni degli altri. Socrate credeva che solo attraverso il dialogo e l'ascolto attento fosse possibile sperare di comprendere gli altri e noi stessi. Questo atto di mettersi nei panni degli altri non è solo un mezzo per apprendere dalle esperienze altrui ma anche per sviluppare una maggiore comprensione e compassione. Non so voi, ma per me il desiderio di conoscenza, che scaturisce dalla consapevolezza della mia ignoranza, è un motore pieno di cavalli per l’anima. Sto studiando un’opera che credevo di conoscere già bene: quante cose non avevo notato prima, nonostante avessi approfondito la partitura in tante occasioni. In un mondo spesso dominato da certezze inflessibili, «so di non sapere» ci invita a essere modesti nella nostra ricerca di conoscenza e ad abbracciare l’incertezza come una parte essenziale della vita.
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