L'avvenimento è stato celebrato da una grande cerimonia, alla presenza di capi di Stato e diplomatici, nelle loro eleganti e severe grisaglie. Fiammanti limousine nere 4x4, danze tribali, lance e tamburi, grandi abbuffate di carne arrostita, fiumi di birra tradizionale, sorrisi a 32 denti e storiche strette di mano per sigillare il patto di una ritrovata fratellanza.
Una cerimonia piena di colori, come solo l'umile e semplice gente d'Africa – quella che non partecipa ai banchetti, però – sa preparare quando si trova tirata dentro nel vortice di certe sontuose occasioni cui proprio non si può assolutamente mancare. Soprattutto quando la notizia è quella che promette che le armi non spareranno più. Almeno si spera.
Grande festa, dunque. Con le bandiere a garrire di gioia sotto il sole di fine ottobre in Sudan del Sud, nella capitale Juba. Con migliaia di mani ad applaudire di gioia, ma soprattutto per scacciare gli spiriti maligni e per celebrare la ritrovata pace tra due ex amici, diventati odiati nemici che si sono sparati addosso l'uno contro l'altro senza esclusione di colpi, per poi ritornare amici con una doppia pacca sulle spalle. Come se nulla fosse mai accaduto. Come se sul loro funesto cammino di questi ultimi cinque anni non fosse rimasta assoluta testimonianza di fosse comuni e croci, vedove senza più lacrime, orfani senza più sorriso, villaggi bruciati e saccheggiati, violenze senza pietà e stupri etnici. Ma soprattutto rinnovata distruzione, povertà e una minuta vacillante speranza di un futuro tutto da ricostruire. La più giovane nazione del mondo, nata nel 2011 dopo un altrettanto ultra decennale calendario di guerre con il Sudan arabo.
«La pace sia con te», ha esordito l'ex ribelle, il vice presidente Riek Machar, con un ampio sorriso, soddisfatto e satollo. «La guerra è finita. Ci siamo perdonati. Adesso andiamo avanti», gli ha replicato Salva Kiir, il presidente, con un ampio sorriso, soddisfatto e satollo. Poi un profluvio di dichiarazioni. Le parole di circostanza, adatte a qualsiasi occasione. Le scuse e i pentimenti. La richiesta di reciproco perdono e le ripetute assicurazione riguardo all'adempimento di un impegno costruttivo per riprendere la strada della pace e guarire i mali del Paese. Insomma, buttiamoci il passato alle spalle e guardiamo orgogliosi a domani. Ma c'è un però che stona, in tutta questa sontuosa pomposità e cantilena di parole, dove le più gettonate erano pace e dimentichiamoci di quello che abbiamo imposto e causato ai nostri simili. Ed è quel passato che non può essere lavato, cancellato con una semplice stretta di mano e dire che tutto è finito e si torna al punto di partenza.
Dopo cinque anni di guerra e violenze tribali fomentate da ambedue i contendenti, centinaia di migliaia di morti, forse più di mezzo milione, oltre due milioni di rifugiati interni, migliaia di bambini reclutati dai gruppi armati e dalle forze governative, bambini rapiti, uccisi o costretti a imbracciare un fucile per uccidere altri bambini, bambini e donne abusati sessualmente; come si può restare indifferenti di fronte all'impunità totale di così tante e brutali violenze? Solo un cielo senza stelle resta muto davanti a quei tanti giovani fiori trascinati via dalla corrente dell'odio, fomentato dalla cupidigia di potere.
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