Eugenio De Signoribus è un poeta molto premiato, molto antologizzato e molto rispettato dalla critica. I suoi primi cinque libri sono confluiti in "Poesie. 1976-2007" (Garzanti 2008), Premio Viareggio-Repaci. Fin dal 1996 Giovanni Raboni si era accorto di lui, pubblicando Istmi e chiuse nella collana di Marsilio che allora il poeta delle Case della Vetra dirigeva. Adesso De Signoribus (che l'anno scorso ha compiuto ottant'anni) pubblica da Manni Stazioni (1994-2017), testi inizialmente apparsi in riviste o cartelle d'arte e profondamente rielaborati tanto da poter essere considerati "poesie nuove" (San Cesario di Lecce, pagine128, euro 14). Sono poemetti e quasi-poemetti, questi ultimi intesi dall'autore come «testi che non hanno uno sviluppo adeguato rispetto al problema che toccano, ma che si sono fermati lì, proprio in quel punto, per un sentire autentico lì compiuto».
Alcuni riguardano la vena civile del poeta, sia con allusioni ecologiche, sia di impegno civile: il Terzo frammento, per esempio, riguarda i Moti di Genova del 2001 che, se non fossero esplicitati in nota, non li si riconoscerebbe dai versi. Un po' come accadde alla poesia Popolo, di Giuseppe Ungaretti, che il poeta dedicò nel 1915 a Benito Mussolini, allora astro sorgente, e arrivò, di libro in libro, fino all'edizione 1942 dell'Allegria: una poesia che, se non fosse stata dedicata, sarebbe stata letta come sfogo lirico: «Fuggì il branco solo delle palme / e la luna / infinita su aride notti / La notte più chiusa / lugubre tartaruga / annaspa». Il massimo della "politica" è nella chiusa, ingenua e inoffensiva come chiunque si avvede: «O Patria ogni tua età / s'è desta nel mio sangue / Sicura avanzi e canti / sopra un mare famelico». Ma è per queste "ingenuità" che a Ungaretti non fu dato il Nobel, mentre quella poesia figura giustamente nell'opera omnia ungarettiana, pur senza la dedica imbarazzante. De Signoribus intitola schietti ricordi ad amici scomparsi: Giovanni Giudici, Paolo Volponi, Giorgio Caproni, e sempre si esprime in una lingua alta, ricca di allitterazioni, attenta forse più a sé stessa che all'oggetto del dire. Lettera verso l'alba è dedicata al nuovo Abele, inteso come una figura di salvezza: «È colui che riesce ad attraversare la storia, tra le innumerevoli tragedie e ingiustizie e inganni, e precipita e risale, esempio di resistenza al male: è il testimone della speranza». Ecco la prima delle otto quartine: «Sei / l'essere che mi fa essere / il giusto a cui affido / la mia incompiutezza / la sferza del vero e la carità». Il personaggio, ma con diversa luce e con diverso tono, era già apparso nella raccolta La Ronda dei conversi (Garzanti 2005), che si conclude con questa parentesi: «(non vano un soffio nel vivente genere / un segno lascia che nessuno vede… / resiste così il nuovo umano…)». Ama le parentesi, Eugenio De Signoribus, e spesso mette tra parentesi i titoli delle poesie.
Un posto importante è assegnato all'innocenza dei bambini, anche nella difesa del pianeta contro gli abusi non solo edilizi che lo deturpano. E il canto, mai lirico, talvolta si piega in canzonetta, come nell'incipit di Memoria di Giorgio Caproni, alla maniera di Caproni stesso: «La tua aguzza voce scuce / la tela dell'immobile meriggio… / estivo è il raggio risorgente, / ciò ch'era morente vive / come l'appello accorato / verso l'ascolto apparente…»; talaltra il dettato si fa sentenzioso, come in apertura di Democrazia: «Democrazia, forse mai stata / o persa per via, o soffocata / sempre mira di potenti / vedute miopi o cieche / parole tradite o perdute / ma d'ogni dove rifluenti / dove gli umani barlumi / non sono mai spenti / o rinascenti alle braci / dei buoni ricordi…». Come si vede da questi frammenti il tono è sempre alto, solenne come il cognome dell'autore, soliloquio senza eco né riscontro. Da Cupra Marittima, dove è nato e tuttora risiede, il poeta lancia messaggi senza curarsi di chi li raccoglierà. È la forza e il limite di un poeta appartato, e l'Adriatico non è un oceano.
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