Fuori dal Comune... ci sono i social. Esserci o non esserci? Questo è il problema. E non è problema da poco, per un amministratore pubblico: «Se sia più nobile d'animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell'iniquo Facebook, o starsene tranquilli senza un mare di triboli ma il consenso disperdere»...
Altro che Shakespeare! Per qualunque politico locale, la piazza digitale è piuttosto prosa della peggior specie. Si comincia infatti a twittare con le più ovvie intenzioni di comunicazione, trasparenza, dialogo, partecipazione; si finisce inevitabilmente a far da imbuto a una cloaca di richieste, lamentele, proteste, osservazioni su qualunque materia della cosa pubblica: locale o nazionale (se si appartiene a un partito), a torto o a ragione, a proposito oppure no. Tanto su Fb non si paga dazio, nemmeno ci si mette la faccia come quando si incontrava il sindaco al bar, e basta un fake qualunque – magari anche costruito a bella posta da un avversario politico sotto falso nome – per essere infilzati come al tiro a freccette di un pub irlandese.
Non c'è policy che tenga, e noi piccoli assessori comunali certo non disponiamo di un ufficio stampa pronto a corrispondere "in tempo reale" e con cognizione agli interlocutori digitali che tempestano le bacheche dall'alba al tramonto... Stare su Facebook è dunque un lavoro suppletivo, e di solito piuttosto ingrato perché qualunque risultato positivo si voglia comunicare sembrerà propaganda, mentre ogni difesa alle critiche sarà bollata come ipocrisia. È inutile: nell'arena dei "mi piace", ben pochi sono gli spettatori disposti a ragionare, tanto più di politica; imperversano invece i tifosi (di una parte o dell'altra).
A che pro dunque "esserci"? Beh, le scuole di comunicazione pubblica sembrano tuttavia unanimi: ormai le campagne elettorali si fanno proprio su Fb, o Twitter, o Instagram, o Whatsapp, o qualcun'altra delle "piattaforme" telematiche dalle cui altezze i politici locali si illudono di essere visti – e dunque di raggiungere, magari persino convincere – migliaia e migliaia di "clienti" con un clic. Chi ne voglia prescindere si condanna pertanto all'irrilevanza delle preferenze, alla carestia dei voti: col che dovremmo farci qualche domanda sulla consapevolezza democratica che ci governa (ma in ciò del resto tutto il mondo sembra ormai paese) e donde di conseguenza nasca la "crisi della politica" che costantemente lamentiamo.
Tant'è: Facebook comunque impera e non starci sembrerebbe, oltre che snobismo fuori luogo, anche irrispettoso nei confronti dei cittadini con i quali si vorrebbe certamente instaurare un dialogo proficuo. Quanto poi a come starci... lo sperimentalismo impera. Da chi non accetta i commenti dei lettori (e dunque dà l'impressione di dirigismo telematico), a chi invece li accoglie tutti purché stiano entro i limiti della decenza: e fa la figura del debole, incapace di replicare ad accuse o insinuazioni. Da colui che "banna" senza pietà qualunque commentatore minimamente fastidioso, a quello che si propone di rispondere punto su punto a ogni critica producendo papiri enciclopedici. Dal fiducioso che affida la cura del suo profilo alla figlia universitaria ("Lei è giovane e ci capisce"), al presenzialista che sembra partecipare alle occasioni pubbliche soltanto per poi postare la relativa foto sui social...
Esserci o non esserci, insomma il dilemma rimane. E il paradosso pure. Quale? Che nel tempo in cui tutti reclamano una politica "del fare", l'efficienza delle azioni, il rendiconto basato sui programmi e la concretezza accordata alle priorità, invece anche per un minimo amministratore di provincia sia così determinante il modo – del tutto virtuale – in cui si presenta su Facebook. «Morire, dormire»... Ma soprattutto apparire.
r.beretta@avvenire.it
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: