Il caldo opprimente del giorno dell’Epifania nell’emisfero australe rende un po’ difficile la conversazione con Grace Wrakia, prima donna e primo laico della Papua Nuova Guinea ad aver mai partecipato a un Sinodo. «Si tratta della stessa sensazione che ho sperimentato arrivando a Roma a fine settembre», dice. «Sono salita sulla cupola di San Pietro e guardando gli edifici e la città, la vastità degli spazi e dei volumi mi ha tolto il respiro. Non è la prima volta che vado a Roma, ma noi non siamo abituati a case e chiese di quelle dimensioni». Grace, madre di tre figlie, insegnante, responsabile nazionale per la pastorale studentesca dei Fratelli delle Scuole Cristiane (La Salle), traccia una linea ancora più netta di demarcazione all’interno dell’assemblea sinodale. Tra i partecipanti dell’Oceania nota che gli “indigeni” hanno più familiarità con l’ascolto, la partecipazione e il senso comunitario rispetto a quelli di origine e formazione occidentale, in particolare gli australiani. Dal colloquio con Grace Wrakia emerge che il Sinodo, infatti, non era destinato a produrre grandi decisioni, ma ha ottenuto lo scopo di rendere i membri della Chiesa più vicini tra loro. «Ci siamo seduti a quei tavoli di condivisione, dieci per ogni tavolo – dice - quasi con la paura gli uni degli altri, non ci conoscevamo, eravamo in genere tre o quattro laici circondati da vescovi e cardinali. All’inizio loro pronunciavano per lo più tesi di carattere generale e in qualche nodo astratte, noi potevamo solo riferirci ad esperienze di vita: le nostre famiglie, a volte spezzate, i nostri giovani con poche possibilità di studio e lavoro, le nostre comunità e la loro fede vissuta spesso senza Eucaristia per le distanze e la carenza di ministri ordinati, ma piene di danze e di canti, di condivisione spontanea della Parola e di animazione da parte dei laici. Piccole chiese e cappelle, ma piene». L’imponenza dell’architettura civile e religiosa romana Grace dice di averla notata di riflesso anche all’interno del Sinodo, con i delegati occidentali spesso focalizzati sulla struttura della Chiesa, l’organizzazione e la condivisione del potere. Le differenze di opinioni, sensibilità e vedute non sono mancate. Ma non c’è alcuna possibilità che possano essere risolte d’autorità o con un documento equilibratore. E in quale altro modo, chiedo allora, secondo il Sinodo? «Bisogna ascoltarsi con cortesia e avere pazienza. Saranno importanti i prossimi mesi in vista della seconda sessione sinodale a ottobre di quest’anno. Spero che sui punti rimasti in sospeso o su cui non c’è larga convergenza si ascolti ancora la gente e si discuta nelle comunità. Il Papa veniva al Sinodo quando c’erano le relazioni dei gruppi. A volte ha detto qualcosa, ma soprattutto ha ascoltato. Quella è la strada. Come quando la nostra gente nei villaggi ha divergenze di terre, di famiglie, di odine pubblico o altro. Si siedono attorno al fuoco e si parla uno alla volta finché le cose non sono chiarite e risolte». Un’ultima sottolineatura prima del congedo. «La Chiesa - sottolinea
Grace - siamo tutti noi, per come siamo e per chi siamo. Inutile continuare a dividerci, per esempio, tra ricchi e poveri. Io sono povera e la mia parrocchia è povera se paragonata ad altre in città o ai Paesi cosiddetti sviluppati. Ma tu sei povero se vieni nel mio villaggio e non sai costruirti la casa col solo materiale che la natura offre o sei incapace di mescolarti alla gente. La ricchezza e la povertà dipendono dalle relazioni non dal possesso. Le cose e le persone hanno un valore in sé, non solo funzionale. I poveri, le donne, i giovani, gli anziani sono componenti della Chiesa, una ricchezza, non un “problema”, come a volte ho sentito riferendosi a loro anche al Sinodo. Ma se ne parlerà di nuovo ad ottobre. In modo più preciso, perché ora ci conosciamo».
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