sabato 16 ottobre 2021
Se a qualcuno capiterà mai di passeggiare per il Parco della Caffarella, a Roma, gli potrebbe facilmente capitare di imbattersi in resti di pavimentazione o di muri. Non sono ruderi dell'antica Roma, ma quel che resta del Borghetto Latino, una delle tante bidonville che sorgevano nella capitale fino a meno di cinquant'anni fa. Ammassi di lamiere e mattoni malamente assemblati in mezzo al fango, senz'acqua e senza luce, malsane, dove spesso i medici si rifiutavano di entrare, e dove vivevano decine di migliaia di persone. Angoli di terribile degrado vicino a quella Roma raccontata da Pasolini in “Ragazzi di vita”, di cui la maggior parte degli stessi romani ignorava, o voleva ignorare, l'esistenza. Il simbolo del prezzo sociale pagato da una città che stava diventando cosmopolita, ma cresciuta senza senso, razziata dai palazzinari e dagli abusi edilizi.
Erano le baraccopoli dei don Roberto Sardelli, e dei molti preti che, come lui, avevamo scelto di viverci in mezzo. E fu in questo contesto che, il 12 febbraio del 1974, si aprì il Convegno diocesano su “La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di giustizia e carità nella diocesi di Roma”, voluto dall'allora cardinale vicario Ugo Poletti, che ebbe come principali collaboratori nella preparazione il futuro direttore della prima Caritas romana, don Luigi Di Liegro, e il rosminiano Clemente Riva, che ne fu anche il relatore generale. Quell'assemblea, passata alla storia come “il convegno sui mali di Roma”, suscitò un mare di polemiche fin dal suo annuncio. Politiche, ma anche ecclesiali: «Paolo VI fu l'unico a sostenermi sempre, a incoraggiarmi ad andare avanti, ma il resto della Curia, a cominciare dal Sostituto monsignor Benelli, non voleva che il convegno si facesse per le possibili implicazioni politiche», disse Poletti in un'intervista che gli feci per “Avvenire” in occasione dei vent'anni dal Convegno.
Ma quell'assemblea, al di là delle polemiche, ebbe la capacità di suscitare, prima, durante e dopo, un'incredibile partecipazione di popolo. Con una mobilitazione di associazioni, movimenti e parrocchie mai vista prima, che in anni così difficili segnò un deciso cambio di passo nella presenza nella società della chiesa, intesa
davvero come popolo di Dio.
Ed è questa la chiesa che Papa Francesco ha chiamato a raccolta domenica scorsa, aprendo il cammino del Sinodo universale, dicendoci che «Dio non alberga in luoghi asettici, in luoghi tranquilli, distanti dalla realtà, ma cammina con noi e ci raggiunge là dove siamo, sulle strade a volte dissestate della vita». E dunque oggi «iniziamo con il chiederci tutti – Papa, vescovi, sacerdoti, religiose e religiosi, sorelle e fratelli laici –: noi, comunità cristiana, incarniamo lo stile di Dio, che cammina nella storia e condivide le vicende dell'umanità? Siamo disposti all'avventura del cammino o, timorosi delle incognite, preferiamo rifugiarci nelle scuse del “non serve” o del “si è sempre fatto così”?». Così che il Sinodo universale «non sia una “convention” ecclesiale, un convegno di studi o un congresso politico, perché non sia un parlamento, ma un evento di grazia, un processo di guarigione condotto dallo Spirito. In questi giorni Gesù ci chiama, come fece con l'uomo ricco del Vangelo, a svuotarci, a liberarci di ciò che è mondano, e anche delle nostre chiusure e dei nostri modelli pastorali ripetitivi; a interrogarci su cosa ci vuole dire Dio in questo tempo e verso quale direzione vuole condurci».
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