Da quel remoto giorno di ottobre dell'anno 52 avanti Cristo, quando Vercingetorige si arrese al proconsole romano Giulio Cesare, fino alla testata di Zidane a Materazzi nello stadio di Berlino 2006, il rapporto tra Francia e Italia ha conosciuto innumerevoli fasi alterne di odio, a volte mortale, e di amore, a tratti viscerale. Proprio quel genere di "emozioni" che il presidente transalpino Emmanuel Macron, nei giorni scorsi, ha prima suscitato e alimentato con toni inutilmente spezzanti, per poi provare a stemperarle mediante vaghe blandizie e professioni di amicizia imperitura.
All'indomani della demi-crise diplomatica sul caso Aquarius, alcuni hanno ricordato che oltre ai migranti oggi esistono altre, perfino più serie, ragioni di scontro tra i due cugini-rivali: il petrolio e gli appalti in Libia, la Tav Torino-Lione, i cantieri navali di Saint-Nazaire, gli appetiti transalpini sulle nostre telecomunicazioni (vedi caso Vivendi) e tanto altro ancora. Incluso l'inveterato "vizietto" dell'intelligence parigina di intromettersi, possibilmente pilotandole, in vicende molto delicate con gravi ricadute sulla sicurezza della Penisola (a cominciare almeno dal 1980 con la tragedia di Ustica). Altro che "sentimenti", insomma. Tra i due Paesi c'è un contenzioso così denso e intricato da far concludere che il vertice salvato in extremis all'Eliseo segni niente più di una fragile tregua, destinata a lasciare presto il campo a nuovi bracci di ferro.
Su un altro versante, personalità non meno esperte di geopolitica sottolineano che l'evoluzione dello scenario internazionale finirà necessariamente per indurre i singoli attori europei a rinsaldare i rapporti interni e a rilanciare su nuove basi l'Unione, pena la perdita irrimediabile di peso e di influenza anche degli Stati oggi individualmente ancora capaci di farsi sentire. Si citano in questo senso i continui strappi di Donald Trump alla tradizionale politica di solidarietà atlantica, il crescente e sempre più ingombrante ruolo della Cina, l'ininterrotto gioco a sparigliare di Vladimir Putin su tutti gli scacchieri. Italia e Francia, quindi, così come gli altri partners del Vecchio Continente, hanno tutto l'interesse a piantarla di pestarsi i piedi a vicenda, per non fare la fine dei capponi di Renzo o dei disperati sulla zattera della Medusa.
Al netto delle pulsioni nazionaliste che minacciano la Ue dal suo interno, l'ottimismo della volontà e la forza della ragione indurrebbero a schierarsi, o per lo meno a tifare, per questa seconda linea evolutiva. E proprio le due capitali protagoniste dell'ultima querelle dovrebbero convincersene per prime e agire di conseguenza. Perché almeno sul terreno storico-culturale, se esiste un'impalcatura davvero capace di sostenere la casa comune europea, è proprio quella che corre sulla direttrice Quirinale-Eliseo. E ciò, potremmo dire, fin da quando, appena 80 anni dopo la resa di Alesia, l'imperatore Claudio consentì ai notabili della Gallia di confluire nel Senato capitolino, sancendo di diritto un'integrazione ormai avvenuta di fatto. E dando origine a quella civiltà gallo-romana capace in seguito di attrarre nel suo ambito le popolazioni germaniche e di agganciare l'intera area centroeuropea alla cultura mediterranea.
Può apparire paradossale, ma per politici che si propongono come riformatori in profondità dell'idea di Europa, per gente come Macron e per chi da noi si proclama alfiere del cambiamento, questo è il momento giusto. Si tratta di lasciarsi definitivamente alle spalle rancori e remore, presunzione e vittimismo, stereotipi e pregiudizi. Il mito della disfida di Barletta è consacrato alla storia, pamphlet come il "Misogallo" alfieriano sono consegnati alla letteratura. Ma anche le aggressioni "a tradimento" mussoliniane andrebbero archiviate per sempre, alla luce di settantatré anni di pacifica democrazia. Senza l'"asse renano" tra Germania e Francia non c'è Europa che conta. Ma senza il tandem Roma-Parigi non c'è Europa, tout court.
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