Sto citando Thoreau, la sua «Vita nei boschi» e la sua perplessità sulla tecnologia: «Non siamo noi che viaggiamo sulla ferrovia ma è lei che viaggia su di noi». Io, se mi volto indietro, nella mia lombarda terra, un piccolo selvaggio credo di esserlo stato. Il fosso era largo due salti lunghi della mia infanzia. Acqua chiara e pulita, quasi petrarchesca, qualche biscia e un raro topo, nuotatore provetto, igienicissimo. C’era anche un pesce, probabilmente una carpa; ogni giorno che passavo di lì, il pesce era sempre allo stesso punto. Sembra incredibile ma avevo appuntamento con un pesce, col quale non avevo mai scambiato una parola. Era lungo una mia spanna d’allora ma per me, al confronto, Moby Dick era un pesciolino rosso d’acquario. Decisi di catturarlo, per avere l’amico a portata di mano. Pessimo costruttore, con un panno sfilacciato realizzai una reticella da accoppiare ad un bambù preso lì da un canneto. La pesca durò ore, lui non si allontanava, testardo come me. Infine lo alzai fino al prato. Era molto più piccolo di prima. L’acqua faceva da lente d’ingrandimento. Non ebbi neanche il tempo di presentarmi a lui che un gattaccio se lo portò nel suo novero della scala alimentare. La mia carriera di pescatore era finita per sempre.
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