Milano, ottobre. Sulla metropolitana stamattina mi riscopro a fare un vecchio gioco. Non è un esattamente un gioco in realtà, ma quasi un esercizio di contemplazione. Nella fila di passeggeri che mi sta davanti ne scelgo uno. Più spesso è una persona anziana. Ciò che cerco di rintracciare sotto ai lineamenti, è il lavoro del tempo sulla faccia. «La smorfia che porta sul viso / un uomo a confezionarla ci impiega una vita / e non sempre riesce a terminarla / da quanto questa smorfia è complicata», diceva una canzone di Giorgio Gaber. Ecco, il mio esercizio sta nel percorrere con discrezione le rughe sui volti degli sconosciuti, cercando di immaginare come erano a vent'anni, e come si siano modificati, segnati dallo scorrere del tempo. Perché se i lineamenti ci vengono dati, l'espressione del volto è opera nostra. E parla, parla di noi, indiscretamente. Questa signora davanti a me per esempio: i capelli platinati, gli occhi vistosamente truccati, le spalle ben diritte, fiere. Una donna che è stata certamente bella, e ancora, si direbbe, combatte, battagliera. Solo una piega amara ai due lati della bocca infrange l'aspetto di una vittoriosa guerriera. Piccole, le due rughe, come la traccia di un sorriso obbligato, di una maschera di buona educazione ostinatamente ogni mattina indossata. E invece, accanto a me, di questo signore distinto, un professore forse, un funzionario in pensione, mi colpisce l'increspamento di piccole aspre rughe fra le sopracciglia – come di chi sia uso a controllare attentamente, e a scovare gli altrui errori. Spesso poi nel trovarmi davanti madre e figlia, cerco rintracciare nell'una i tratti dell'altra, così come il tempo li ha marcati. Oppure tento il percorso contrario: osservo un diciottenne e provo a immaginarlo da vecchio – ma questo esercizio è più difficile, anzi, quasi impossibile: indovinare, di un uomo, ciò che non è ancora. E quel bel bambino sui tre anni, così florido, lieto? Guardo la faccia del nonno che se lo tiene stretto. La somiglianza è netta, nella linea forte del mento, nel sorriso. Ma gli occhi del nipote sono quelli di un piccolo re trionfante; gli occhi del vecchio sembrano quelli di un generoso leone domato. È questo dunque il lavoro sulle nostre facce del tempo, come di un fiume che si scavi nella roccia le sue gole? Nel vetro di un finestrino, la sera, incrocio a volte me stessa. Ma subito distolgo gli occhi, e guardo al polso l'ora, e penso ad altro, come fanno tutti. Come diceva quella canzone di Gaber? «La smorfia avanza da sola / la smorfia non è indulgente, affiora pian piano / e non puoi neanche controllarla / racconta spietatamente come siamo».
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: