Un cielo turchese, una spruzzata di neve sulle cime come la manciata di farina che si sparge sulle montagne, sagomate in carta, del presepe. In un giorno così mia madre, già vecchia, cominciò a parlare con parole mai dette; posso visualizzarle: «Di tutti noi sei l'unico a non avere conosciuto tuo padre, non ti ha mai abbracciato e non hai mai sentito il suo calore, non ti ha mai sollevato da terra ridendo, non ha potuto insegnarti niente di ciò che è importante. Pensavo che avrei dovuto fare io alcune cose che lui avrebbe fatto per te ma mi prendeva la disperazione, mi seccava il cuore in petto, non riuscivo. Mi dispiace tanto». Lacrime ormai pacificate le solcavano lente il viso, io trattenevo il respiro. Il tempo del suo dolore volgeva al termine, prosciugato dagli anni; con la malattia avrebbe riacquistato occhi limpidi, da bimba, serena e inconsapevole; avremmo imparato a ridere insieme, lei con una tonalità cristallina che non credevo possedesse, per quello che io conoscevo le si addiceva il rigore, la tristezza, il senso del dovere. «Per tuo padre la notte di santa Lucia era festa grande, faceva in modo di finire il lavoro in anticipo e con tuo fratello, da che aveva cominciato a camminare, erano impegnati in mille faccende: spazzavano l'aia, spargevano paglia pulita, preparavano il fieno e un pugno di biada, un secchio d'acqua. Misteriosi e indaffarati addobbavano una finestra con un lume, un tavolino con qualcosa da mangiare, discutevano e modificavano la sistemazione fino ad essere soddisfatti del loro lavoro. Guardavo tuo fratello, guardavo tuo padre e vedevo la mia gioia; c'eravamo piaciuti da ragazzi, fidanzati in segreto, avevamo attraversato la guerra tra paure e pericoli, lui al fronte in Albania, Grecia, in Russia, ma la speranza non ci ha mai abbandonati: ci saremmo sposati appena possibile. Troppo poco insieme ma siamo stati tanto bene. Io con tuo padre sono stata davvero felice». Per un attimo abbiamo incrociato lo sguardo ed io l'ho abbassato, per riguardo. «Viaggiatori importanti passano durante la notte di santa Lucia in viaggio verso Betlemme dove, s'avvicina il tempo, nasce il Salvatore del mondo. Tuo padre s'alzava nella notte, quando anch'io dormivo, e sistemava i segni del loro passaggio: sulla tovaglia le briciole e un boccone di pane, la buccia di una mela, qualche crosta di formaggio; il fieno sparito, la paglia sporca, il secchio vuoto. C'era un regalo per tuo fratello di cui neanche io sapevo, così la mia sorpresa si rispecchiava nella sua. Eravamo felici, ogni giorno. La disgrazia ci ha travolti e abbiamo rischiato di perderci ma adesso essere qui, nella nostra casa, vederti uomo, indaffarato e misterioso preparare il presepe, mi allarga il cuore, mi fa rendere grazie per ciò che abbiamo avuto. Gioia e dolore». Come in una partitura musicale vibravano silenzi e accenti; echi di pianto, bagliori di luce e di forza. È mancanza di ragione e di immaginazione non percepire, nella realtà degli accadimenti, il mistero della vita e ben triste, prima ancora che arrogante, trascorrerla tra ansie da prevenzione e verifiche di tornaconti comunque spiccioli. L'immagine di una madre con il figlio al seno, già segno di una croce, è il cuore di ogni mistero che origina e circonda l'uomo. Infiniti racconti lo illuminano a tratti, uno dà senso al mio mondo, lo racchiude aprendolo all'Eterno: «Al tempo di Erode, re della Giudea, c'era un sacerdote di nome Zaccaria, della classe di Abia, e aveva in moglie…». Tra il caos e il caso, suo anagramma, un avvenimento áncora uomini e donne, comunque figli, e i loro figli generazione su generazione, alla verità che, sola, rende liberi: l'Incarnazione.
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