Il villaggio globale ci ha resi soltanto vicini: non ci ha presentati gli uni agli altri. Ci siamo messi a condividere una quantità colossale di informazioni, ma continuiamo a essere dei perfetti estranei. Tutt'al più, è cresciuto il voyeurismo che sorvola l'esistenza altrui e ci disperde dalla nostra. Alle nostre società ipertecnologiche difettano i protocolli dell'incontro che, per esempio, facevano parte, e con la massima naturalezza, della quotidianità delle società primitive. Tra i popoli del deserto, quando uno sconosciuto era ricevuto come ospite, lo si rendeva prossimo attraverso questo rituale di avvicinamento: «Considerati il benvenuto! Ricevi il mio saluto. Come procedono i tuoi giorni? Come stanno i figli di Adamo? E la tua famiglia? E la tua tenda? E la tua gente? E tua madre? E tu: come sta andando il viaggio che stai facendo?».
Si comprende come accogliere significasse ascoltare l'altro in profondità. È questo che è in gioco in un incontro genuino. Le formule possono essere più o meno lunghe o concise, ma l'essenziale è che rimanga lo spirito di un simile cerimoniale: è questo che umanizza le nostre traiettorie. Scrisse il filosofo Martin Buber: «Se guardo a un essere umano come al mio "tu", se lo introduco nella relazione fondamentale "io-tu", egli cessa di essere una cosa tra le cose... Entro in relazione con lui, nella sacrosanta parola fondamentale... Qui si trova la culla della vita vera».
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