Ci sono alcuni momenti nella storia del mondo, in cui si sente un bisogno particolare di apocalissi. Il nostro è uno di questi. Molte circostanze si affollano per produrre qualcosa che somiglia a una costellazione di “segni dei tempi”. Viviamo sicuramente in una fase di crollo di qualcosa, una trasformazione che non annuncia una palingenesi, ma che è ancora un capovolgimento di molte derive che avevamo dato per scontate. Siamo in “un già e non ancora” che potrebbe essere un baratro o un salto. E coloro che per vari motivi sono più sensibili all'“angelo della storia” caro a Benjamin si sentono chiamati all'Apocalisse.
Luca Arcari, ottimo storico del cristianesimo, ci ha raccontato in “Vedere Dio, le apocalissi giudaiche e protocristiane (IV sec a.C. II sec d.C.)” «che in un certo momento il mondo mediterraneo ha prodotto una grande quantità di apocalissi». E Jean Pierre Filou ci ha mostrato che l'apocalittica non è estranea all'islam. Oggi siamo circondati da ingenui o arrabbiati profeti che vogliono a tutti costi accelerare l'avvento di qualcosa di cui non hanno alcuna idea. Il più ingenuo e in buona fede, un amico, è Franco Berardi detto Bifo che, in una rabbia furibonda contro il presente, manifesta quel «contemptus mundi» che è un segno dei tempi. Lo fa da una matrice che considera post-marxista, ma che rivela tutta la deriva apocalittica: per Bifo Il mondo è arrivato a un punto tale che è meglio che si distrugga al più presto, anzi non il mondo, ma l'umanità travolta dalla propria cattiveria e stupidità. Per lui ben venga un Omicron che diventi un Omega, una vera Fine che ci meritiamo. Da più parti si levano echi di questa voglia di Fine; i più furbi, Toni Negri in testa a tutti, auspica che l'Impero giunga al suo culmine per potere poi crollare. La Bestia dell'Apocalisse è il Capitalismo e in tanti sono pronti a spiegarci che “sta finendo”.
Il post-marxismo è diventato lo zoccolo duro delle Apocalissi, ha strappato al mondo delle religioni la bandiera dell'escatologia. Non è una novità. Jacob Taubes lo aveva compreso decenni or sono, che c'è un prezzo da pagare per ogni messianismo. Il punto è che il limite di esso è la volontà di spingere la storia, di accelerarla, come tutte le ideologie del Novecento hanno cercato di fare, creando mostri. Non che non ci siano i segni dei tempi oggi, tra cambiamento climatico, devastazione del pianeta, baratro tra ricchi e poveri. Il punto è che il profetismo è diventato tanto banale da coincidere con il conformismo, e la sua compagna privilegiata, quello che l'antropologo Marshall Sahlins, ha definito Leviathanismo, la cristallizzazione delle nostre responsabilità in una grande Bestia che alla fine non si sa se è detestata o adorata. Il vitello d'oro o il Leviathano ci rendono la vita facile, ci danno l'assoluzione perché c'è qualcosa troppo grande rispetto a noi e giustifica l'homo homini lupus.
Ammiro nell'amico Bifo l'angoscia sincera rispetto al senso della fine, la radicalità di chi non si accontenta di un inutile ottimismo. Come spesso gli ripeto, la sua è una attitudine mistica, una condanna del mondo e una voglia di sfuggirlo. Ciò che non riesco a dargli è l'idea che la disperazione più grande e inconsolabile è quella che accetta l'imprevedibilità, che rinuncia a ridurre il mondo a un'unica lettura, che lo svuota di tutto ciò che ancora non sappiamo e quindi gli nega la speranza che è possibile solo dentro a chi non si aspetta più niente.
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