È tornato al cinema per soli tre giorni e solo allora, probabilmente, molti si saranno accorti che sono passati vent'anni. Titanic di James Cameron arrivò in Italia all'inizio del 1998, anticipato dal clamore che il film aveva suscitato nelle settimane precedenti in Usa e in molti altri Paesi. Non era la prima volta che il cinema provava a raccontare il più celebre naufragio della storia, episodio documentatissimo e nello stesso tempo immediatamente caricato di connotazioni simboliche (l'orchestra che suona mentre la nave affonda, la Prima guerra mondiale che in quell'aprile del 1912 sembra ancora lontana e invece è già incombente, forse inevitabile). Per convincere i produttori, da parte sua, Cameron ricorse a una sintesi abbastanza elementare: è la storia di Romeo e Giulietta su una barca, disse. Questa volta però a morire è solo il Romeo di turno, il pittore vagabondo Jack Dawson, mentre Rose, la sua bella e irrequieta Giulietta, è destinata a sopravvivergli. Più dei nomi dei personaggi, a restare impressi nella memoria sono quelli degli attori, Leonardo DiCaprio e Kate Winslet, che proprio a Titanic devono il loro statuto di divi. Ottenuto quasi fuori tempo massimo, si potrebbe aggiungere, dato che con la grandiosa favola di Cameron (premiata con undici Oscar, in maggioranza tecnici, ma che comprendono anche il riconoscimento come miglior film) si chiude definitivamente la stagione del cinema così come eravamo abituati a conoscerlo. E il bello è che questa svolta è proprio Titanic ad annunciarla.
Com'è noto, la struttura del racconto si muove tra passato e presente. A fare da tramite è una Rose ormai molto anziana (una strepitosa Gloria Stuart, habituée di Hollywood fin dagli anni Trenta), coinvolta nel recupero del gioiello che le era appartenuto e che dovrebbe ancora essere nascosto laggiù, nel relitto dello sfortunato transatlantico. Le operazioni sono condotte da una nave attrezzata con tutti i più moderni ritrovati, compreso un computer – avveniristico per l'epoca – che permette di visualizzare una ricostruzione dell'incidente con una grafica molto simile a quella dei videogiochi. Il punto cruciale sta esattamente qui: agli occhi dello spettatore la vicenda si presenta prima come una modesta simulazione digitale e poi come una strepitosa messinscena, allestita senza risparmio di mezzi. Da vero regista-demiurgo, Cameron realizza di persona le riprese sottomarine e, quando arriva il momento di girare la scena in cui il Titanic si spezza in due, si fa imbragare sul ponte per effettuare la vertiginosa ripresa della caduta. Si comporta come un artigiano d'altri tempi, quasi contraddicendo l'entusiasmo per gli effetti speciali presente in molti dei film da lui diretti fino a quel momento (per esempio Terminator, del 1984, e più ancora The Abyss, del 1989). Ma non è così, come dimostra nel 2009 l'epopea tutta virtuale di Avatar, nella quale l'estetica del videogame pare trionfare in via definitiva.
Titanic, insomma, non si limita a rappresentare la fine di un'epoca, ma la fa propria, rielaborandola nei termini di un'avventura romantica che è insieme apologo politico e film d'azione, celebrazione di un amore irriducibile e sottomissione all'inflessibilità del destino. Perché Rose non fa posto a Jack sulla zattera improvvisata su cui ha trovato rifugio? I fan se lo chiedono da vent'anni, senza mai trovare pace. Perché non poteva andare altrimenti, continua a rispondere Cameron: perché nella storia che volevo raccontare dovevano esserci un sacrificio, una separazione, una perdita. Shakespeare sarebbe stato sicuramente più sottile nella sua argomentazione, ma probabilmente – da buon capocomico – avrebbe finito per dare ragione all'esuberante allievo.
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