I disturbi alimentari raccontano di difficili dialoghi con sé stessi. La poetessa Louise Glück, che era anoressica, definì l’anoressia la costante ricerca «di un sé plausibile». Soffrendo nel corpo, costringendolo a sforzi e privazioni si cerca una nuova definizione di sé. Dell’idea di un rapporto difficile con il cibo come spia di laboriosa ricerca di identità si occupa un libro denso e molto bello della giornalista statunitense Rachel Aviv, dal titolo Stranieri a noi stessi, di recente tradotto in Italia da Claudia Durastanti (Iperborea, pagine 285, euro 19,00). A cosa, esattamente, si è stranieri? Stranieri a sé stessi quando estranei al proprio dolore, alla propria vulnerabilità. Questo viene da rispondere leggendo i diversi quadri medico-biografici che Rachel Aviv assembla, racconta, sviscera. Casi medici di disturbi vari (fisici e psichiatrici) riassunti nelle storie di cinque donne dalle età, le nazionalità, i destini diversi. Donne accomunate da un tormento, un disagio nei rapporti col mondo che tuttavia diviene modo di stare al mondo, e insieme racconto, nucleo narrativo pulsante. Un libro in cui si entra come si entrerebbe in un fiume dalla cui corrente si sia da subito misteriosamente trascinati, convinti, travolti. Un libro sul malessere e sulla cura, ma anche su quanto molte volte la cura non arrivi a curare. Un libro sulla nudità del sentirsi vulnerabili, senza scudi che proteggano dalle interferenze degli altri; ma anche, cinque storie che dicono cosa sia, attraverso il disagio, trovare nuove strade di espressione e di compromesso, sino ad addivenire a nuovi equilibri. Storie di persone vive ma che sentono di non vivere davvero; storie di affondo nel proprio problema con il corpo (il nutrirlo, il denutrirlo) per giungere a capire come i confini del singolo disturbo possano espandersi sino ad ampliare il pensiero di chi quel disturbo lo patisce. Condurre così la persona a riconsiderare termini e valori di un’intera esistenza: la propria, quelle altrui. La cosa più ammirevole del libro di Rachel Aviv è la delicatezza e l’intelligenza con cui sa accostarsi a queste vite scorticate, restituite senza la mediazione di auto-rappresentazioni in minima forma rassicuranti. Lo sguardo che lei sa posare su quelle vite è saggio, giudizioso, proprio perché privo di giudizio. Punto di partenza e punto d’arrivo coincidono: si tratta per lei di comprendere le vicende di disagio fisico e psichico che ha scelto di raccontare. O invece di non riuscire a farlo, ma lo stesso scegliere di restare accanto. Perché è allora – solo allora, forse – che chi si sente straniero a sé stesso trova come avvertire in forma meno acuta quella estraneità. Quando trova in qualcun altro accoglienza alla propria vulnerabilità. Il rispetto di cui Aviv dà prova raccontando le storie di Ray, Bapu, Naomi, Laura, Haiva, mostra un grado alto di attenzione, ed è in nome di quella che Stranieri a noi stessi si fa racconto avvincente come un romanzo. Un’alta qualità di attenzione perché intessuta di ascolto, di sguardo: di un accogliere mite. Questo libro dice quel genere di amore e dice come l’estraneità a sé stessi trovi sollievo nell’accoglienza di un neutro, saldo, umanissimo stare vicino.
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