Cinema e televisione, immagini sonore in movimento inquadrate ad effetto, nel volgere di un secolo si sono imposti come forma di comunicazione totale e globale: informazione, intrattenimento, propaganda e spettacolo. Il loro intreccio con internet, rete di connessioni militari, economiche, sociali, ne ha moltiplicato a dismisura la capacità di penetrazione e fruizione, le potenzialità.
Il confine tra essere ed apparire si è frastagliato e s'assottiglia: in video è forma immateriale dell'esistere. L'educazione dell'infanzia, l'emotività dei singoli, le possibilità di affermazione e quelle affettive, le forme e i modi della socialità, della politica, della religiosità ne sono stati travolti e profondamente modificati. La mobilità dello schermo, supporto indispensabile, ridotto a tascabile, ne sta facendo una creazione che l'uomo può pensare a propria immagine e somiglianza.
Sembra un tempo primitivo quello in cui ai libri e al teatro, con modalità opposte ma complementari, toccava raccontare l'uomo, accompagnarlo nelle vicissitudini.
Non oso immaginare il futuro, già fatico col presente: uomini e donne di mezz'età, quindi con qualche decina di inverni sulle spalle, e giovani esperti di cambiamenti climatici travolti da una forte nevicata con gelata, a febbraio. Dovrebbe essere la cosa più naturale del mondo ma il buon senso è già merce rara e primitivo assume valenze di gran pregio.
Approfitto di queste giornate calde di fuoco a legna e rinvigorite da salutari spalate di neve per ripassare, con occhi interessati, una storia del teatro contemporaneo che mi ha sempre affascinato; odora di stalla, snoda branchi di oche a processione, risuona di incitamenti gutturali e di zoccoli al galoppo nella sabbia schizzata a raffica sugli spettatori.
Ha l'apparenza di un circo ma possiede la ritualità di una cerimonia; brandelli di storia dell'umanità scandita sui tempi della musica facendo tesoro tanto della miseria stracciona quanto di una aristocratica eleganza. Carovane in viaggio, cavalieri e viandanti, si materializzano come reperti antropologici tra animali e deità a reinventare una scena ormai priva della coscienza del tragico, senza grazia, senza meraviglia, sterilizzata nella ricerca, soffocata dalla psicologia o appagata dalla denuncia.
È il teatro di Bartabas che da un maestoso cavallo frisone, Zingarò, ha preso il nome. Bartabas è nome d'arte, pseudonimo di una identità in divenire in cui di definitivo c'è solo la propria negazione anagrafica. La metamorfosi lo ha portato da rampollo della buona borghesia parigina, attraverso un apprendistato nel teatro di strada, per corpi temprati, voci tonanti, spiriti incandescenti, ad inventare il teatro equestre contemporaneo.
Tzigano, gitano, zingaro, un po' monaco molto guerriero; una tensione sciamanica ad una religiosità materica fatta di suoni, ritmi, potenza animale; accettazione del rischio, del pericolo come parte integrante, condizione inalienabile, dell'esistenza e della sua messa in scena. Una storia nata nel 1984, cresciuta in fortunate tournèe negli Stati Uniti, in Russia, in Giappone, in Italia.
All'origine un cabaret espressionista, fotografia di una Europa centrale ormai scomparsa, per cavalieri saltimbanchi, con oche, tacchini, falchi, asini ed ovviamente cavalli; poi un'apertura fulminante alle culture equestri del mondo: il Marocco e la Georgia, il Rajastan, la Corea, incontrando la danza: moderna, rituale, etnica; monaci tibetani lungo il cammino, fanfare moldave e taraf di Transilvania. Piuttosto primitivo, vero?
(continua)
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