Tutto in due giorni. Il 16 e 17 gennaio del 2015 erano state bruciate le chiese e i luoghi di culto cristiani prima a Zinder e poi a Niamey. Nell'antica e nella nuova capitale del Niger c'era stato un giorno di differenza per gli attacchi di centinaia di giovani, talvolta accompagnati e guidati da capi religiosi. Anche altri simboli occidentali erano stati presi di mira: stazioni Total, la telefonia Orange, alcuni locali notturni. Vi furono una decina di morti, danni considerevoli agli edifici e ferite a tutt'oggi non rimarginate nello spirito di molti. Si registrarono alcune centinaia di arresti i giorni seguenti i fatti e poi più nulla, né mandanti né esecutori furono molestati. L'impunità e la giustizia fanno spesso buoni affari. Alcuni luoghi di culto accettarono di essere parzialmente risarciti dallo Stato. Col tempo, l'episodio s'è allontanato dalla memoria collettiva e altri avvenimenti, ancor più drammatici, hanno finito per cancellarne la traccia. Solo rimane l'eredità di un perdono offerto agli sconosciuti da parte dei vescovi e la vita che continua il suo incerto corso pur tra macerie.
Ricordo quei giorni di gennaio. Quella mattina, dopo la preghiera alla Grande Moschea di Niamey. Tutto come il presente di un passato già vissuto nella capitale della Liberia, Monrovia. La stessa paura di un qualcosa di indefinito che si distingue dalla vita ordinaria. Gente che fugge lungo le strade, altri con con sassi, bastoni e in mezzo gli immancabili pneumatici che bruciano sull'asfalto che fonde. E il pensiero che va lontano, alla guerra civile che aveva annientato il Paese per quindici anni. Tutto accade sempre sulla strada perché è lì scorre la vita di un popolo che lotta per farsi una via migliore. Stavolta arriva e basta l'esca di "Charlie Hebdo" che con le sue vignette fa parodia della democrazia d'Occidente. E arriva anche lo sconcerto della gente quando il Presidente del momento afferma di "essere anche lui Charlie" e se ne va a Parigi per manifestare contro l'assassinio dei redattori del settimanale. Si alza e parte per i morti lontani senza mai essersi alzato e partito per i morti del popolo che l'ha eletto.
La ferita nei cristiani nigerini rimase aperta per qualche tempo e, quasi a rispondere all'evento, si alzarono muri di cinta attorno alle chiese, ornati da fili spinati e muniti di guardie giurate. Molti musulmani si domandarono come tutto ciò fosse accaduto, dopo decenni di tollerante convivenza. Nelle comunità cristiane si fece più forte l'esigenza di definirsi e distinguersi dagli "altri", che non meritavano affatto le scuole, gli aiuti forniti e la solidarietà offerta nelle molte traversie comuni. Meglio chiudersi, proteggersi e "aiutarsi" tra amici e correligionari. Il dialogo con l'alterità cominciò ad apparire inutile e forse dannoso. Poi il tempo, fatto di sabbia che scorre, ha aiutato a dimenticare, anche perché avevano ripreso a far irruzione altri drammi. Il rapimento di Pierluigi Maccalli, padre Gigi, tre anni dopo e con lui di centinaia di nigerini, ostaggi meno importanti e meno seguiti dai cacciatori di notizie. E le frontiere del Paese che cominciavano a essere più visibili. Confini tra chi è in miseria, e prova a mercanteggiare benessere, e politici che barattano povertà e ricchezza per perpetuarsi al potere.
C'è un sordo risentimento nel popolo che soffre, tace e attende l'ora opportuna per una rivolta che solo le agenzie umanitarie, ridotte a "oppio del popolo", riescono a ritardare. Senza perdono non c'è futuro, diceva Desmond Tutu. Ma qui da noi anche il perdono è di sabbia.
Niamey, 16-17 gennaio 2022
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