Una cineasta australiana ha realizzato un documentario in cui racconta il rapporto dell'utente medio con il cellulare. I dati sono sorprendenti: secondo questa ricerca ognuno di noi controlla il suo smartphone ogni 7 minuti circa. Questo vuol dire che in una giornata, qualsiasi cosa stiamo facendo, la maggioranza di noi dà almeno un'occhiata al cellulare circa 150 volte: un numero davvero impressionante, testimone di una vera e propria dipendenza.
Si tratta di un fenomeno che ha molti livelli di lettura possibile, ma quello che mi fa riflettere è il suo rapporto con il tema del controllo: noi controlliamo il nostro cellulare perché le cose non sfuggano al nostro controllo. Ognuno, poi, ha i propri ambiti privilegiati, che rendono in qualche modo ragionevole ciò che stiamo facendo: le agenzie di stampa, le previsioni del tempo, facebook, instagram, le mail. Come se, ogni 7 minuti, potesse accadere qualcosa che dobbiamo conoscere in tempo reale, e come se avere informazioni in tempo reale ci permettesse un controllo sulle cose. È una dinamica che, pur con le dovute differenze, ricorda molto la trappola patologica del disturbo ossessivo-compulsivo.
Il disturbo ossessivo-compulsivo nasce da un'ansia pervasiva, che porta a dubitare di tutto a partire dalle proprie percezioni, pensieri, azioni. La persona che ne soffre ha la sensazione di non poter avere presa sulla realtà: chiude il gas, e le viene il dubbio irrisolvibile di non averlo chiuso; è certa di essersi lavata le mani, e le viene il dubbio infinito che sulle sue mani ci siano ancora pericolosi germi. La sua mente dice: “è così, è la realtà”, ma subito dopo insinua il dubbio: “forse non è davvero così, forse questa non è la realtà, ma solo un tuo pensiero. Devi controllare”. Una tortura davvero terribile, che obbliga ad aumentare le manovre di controllo trasformandole in compulsioni.
Qualcosa di simile sembra stia accadendo a tutti noi: è come se fossimo preda di un'ansia diffusa e impalpabile che non riusciamo a placare. Il moltiplicarsi esponenziale di informazioni, la frammentazione dell'esperienza, l'accelerazione vorticosa del tempo ci espongono a una sensazione di perdita costante del controllo sulla realtà.
Ciò che ci spinge a prendere in mano il cellulare corrisponde a un lieve stato di ansia: una lieve inquietudine, un senso di necessità e di mancanza; e come nella compulsione, le risposte che troviamo acquietano quest'ansia per un tempo troppo breve. Le cose non hanno il tempo di scendere in profondità e non si sedimentano. Non sono abbastanza “reali”.
La creatura umana, fatta di un singolare impasto di anima e di corpo, ha bisogno che la realtà sia tangibile: i nostri sensi accolgono le informazioni con rapidità, ma per processarle hanno bisogno di tempo.
Processare un'informazione vuol dire darle il tempo di collegarsi con le altre informazioni che già abbiamo in memoria, e permetterle di inserirsi in un contesto di senso. Solo così noi “sappiamo” le cose, e solo così possiamo costruire e arricchire progressivamente le nostre mappe mentali.
Il procedimento che rende stabile e personale un'informazione è la riflessione: riflettere è dare alla mente il tempo di attivare nuovi collegamenti tra le diverse tracce, e di aprire così piste nuove, personali, inedite.
Un procedimento che è esattamente il contrario della modalità compulsiva, che si limita ad accumulare informazioni destinate a lasciare solo tracce confuse.
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