Chiamiamolo Peppino. È nato nella capitale italiana negli anni Trenta. Ha avuto una vita non illustre, così l'avrebbe definita Giuseppe Pontiggia. Adesso è rimasto solo come «I veci che 'speta la morte» al centro di una grande poesia di Virgilio Giotti. Fa il guardiano di un giardinetto comunale che deve aprire all'alba e chiudere al tramonto. Si tiene le chiavi in tasca quasi fossero un gioiello prezioso: fra le sue mani secche e nodose sembrano gigantesche. Trascorre il tempo a fissare il profilo dei palazzi, seduto sullo sgabello di plastica posto di fianco a una baracchina di bibite e caffè. Indossa una cuffia di lana colorata. Durante le ore più fredde si mette un plaid sulle ginocchia. Nelle belle giornate invernali resta immobile sotto i raggi tiepidi del sole, come un fiammifero sul punto di spegnersi. Se voglio gettare uno sguardo non effimero sul ventesimo secolo faccio un salto da lui. Gli chiedo di regalarmi un ricordo della Liberazione di Roma. Peppino ormai parla a stento, sorridendo mi accenna qualcosa sulle truppe americane, ma è troppo poco per raccontarlo ad altri. E poi a contare di più, prima ancora delle cose che dice, per me sono i peli ispidi della sua barba bianca che gli spuntano sulle guance incavate come ultimi ramoscelli della sua lunga esistenza.
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