Il fotografo Mario Dondero raccontò che la lettura di scrittori dalla prosa per lui particolarmente descrittiva (Mario Tobino, Pratolini, altri) lo invogliava ad andare a fotografare i medesimi paesaggi narrati nei libri. Un richiamo esercitato attraverso parole, capace di agire su lui fotografo al pari che su viaggiatori narratori. L’inglese Patrick Leigh Fermor (autore tra gli altri di un mirabile libro sulla penisola del Mani, nel Peloponneso) partì a piedi diciottenne. Lasciava la Gran Bretagna funestata dal nazismo montante (era il 1933). Intenzione era camminare attraverso l’Europa intera, ma lui presto non ebbe dubbi a dirigersi verso quella Grecia che sarebbe poi divenuta sua patria d’elezione. Nella sacca da viaggio aveva libri di poesie. S’era formato come autodidatta, leggendo soprattutto testi sulla lingua greca. Il richiamo cui obbediva era imperativa necessità di andare a vedere con i propri occhi certi paesaggi, così da poi magnificamente restituirli con le parole. Un innamoramento, il suo, di natura glottologica prima ancora che letteraria. Quel che lo sguardo avrebbe colmato, era un anelito sopraggiunto come eco di una riflessione sulla lingua. E gli occhi avrebbero appurato qualcosa di solo presentito; da quella conferma, le più giuste, incantate parole.
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