«Datemi Scott a capo di una spedizione scientifica, Amundsen per un raid rapido ed efficace, ma se siete nelle avversità e non intravedete via d'uscita inginocchiatevi e pregate Dio che vi mandi Shackleton». Parola di Raymond Priestley, geologo, geografo ed esploratore britannico, presidente della Royal Geographical Society. Ernest Shackleton è, ancora oggi, l'emblema dell'uomo capace di portare a termine l'impossibile e di ridefinire l'idea di successo. Mettiamolo a confronto con un altro grande navigatore, tornando indietro di oltre 2.500 anni: Ulisse, l'eroe che porta a compimento la sua missione. Certo, ci mette un po' di anni, però riesce nell'impresa: ritorna a Itaca, ma con un piccolo effetto collaterale. Perde, in quel viaggio, uno dopo l'altro tutti i suoi uomini. Ernest Shackleton è un tipo di eroe diverso, perché la sua missione non arriverà a compimento: apparentemente sembrerebbe una sconfitta, ma porterà a casa sani e salvi, in una situazione terribile, tutti i suoi 27 compagni di viaggio.
Dopo il raggiungimento del Polo Sud da parte di Amundsen e di Scott, l'unica conquista di prestigio che restava, nel 1914, era la traversata del continente antartico. Shackleton voleva provarci e la sua spedizione partì da Londra, sulla nave Endurance, il 1º agosto 1914, tre giorni prima che l'Inghilterra dichiarasse guerra alla Germania. A bordo, con lui, altri 27 uomini. L'Endurance rimase ancorata in Georgia del Sud per un mese e poi salpò verso il mare di Weddel il 5 dicembre del 1914. Il 10 gennaio 1915 la nave arrivò lì e nove giorni dopo rimase incastrata nella banchisa. Il mare ghiacciato ci mise dieci mesi a stritolare l'Endurance che il 21 novembre l'equipaggio lasciò, trasferendosi sulla banchisa in un campo improvvisato a cui venne dato il nome Ocean Camp. Incominciò qui, chiamiamola così, la fase 1, dove ogni cosa recuperabile dell'Endurance venne utilizzata. La cambusa, naturalmente, per sopravvivere grazie a un'organizzazione molto razionale delle risorse. Poi le scialuppe per costruire ripari, altre per aspettare il disgelo. Occorre abbandonare il superfluo e muoversi in maniera leggera. Il primo trasferimento avvenne il 29 dicembre, trasportando al traino tre scialuppe con le cose essenziali, su un lastrone di banchisa chiamato Patience Camp.
All'inizio di aprile i ghiacci iniziano a sciogliersi e il gruppo (forse sarebbe meglio definirlo squadra) naviga sulle scialuppe fino all'Isola di Elephant, raggiunta al giorno n. 498 di spedizione. In quel posto le probabilità di essere ritrovati sono nulle, così Shackleton passa alla fase 2: gruppo diviso, lui e cinque uomini partono su una scialuppa per la Georgia del Sud, distante 1.600 km. Arrivano dopo due settimane terribili di navigazione, ma sbarcano in un luogo di montagne e ghiacciai inesplorati. Dunque, fase 3: in testa ancora il leader insieme a due uomini. In 36 ore attraversano un territorio fra i più selvaggi e complicati al mondo. I tre arrivano presso la stazione baleniera di Stromness il 20 maggio e da lì partirà un viaggio a ritroso per andare a recuperare tutti, uno per uno, fino all'isola di Elephant dove il 30 agosto 1916, giorno n. 760 della spedizione, tutti gli uomini dell'Endurance salgono a bordo del rimorchiatore cileno Yelcho, dove ritrovano il loro capitano.
Ottenere un risultato a ogni costo, dunque, oppure assumersi la responsabilità della vita delle persone che hai al tuo fianco e che magari, quella vita, l'hanno messa in gioco per raggiungere un obiettivo comune? Shackleton sceglie la sua priorità. E sceglie anche, in quegli spostamenti in cui le cose non essenziali dovevano essere abbandonate, di non privare mai i suoi uomini degli strumenti musicali e di una palla per giocare lunghe partite sul pack. Perché nessuno si salva da solo.
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