Mai fare promesse impossibili da mantenere. La storia della Brexit, in questo senso, è esemplare. A promuovere nel 2016 il referendum per l'uscita del Regno Unito dall'Unione europea era stato il primo ministro britannico David Cameron, sicuro in questo modo di mettere in riga la destra del suo partito e l'estrema destra dell'Ukip, il partito di Nigel Farage, che i sondaggi davano in rialzo a danno dei conservatori. Come sia andata a finire è storia: dopo una campagna elettorale giocata su una martellante propaganda sovranista, a iniziare dal “rimandiamo gli immigrati a casa loro”, il referendum passò di stretta misura, contro tutte le previsioni e anche contro il volere dello stesso Cameron. In compenso Farage, vero vincitore, all'indomani del referendum si dimise lasciando la patata bollente nelle mani del primo ministro. Come a dire: “Vabbè, ma io scherzavo”.
L'entità del disastro causato dalla Brexit nel Regno Unito è enorme, anche se da noi arrivano solo vaghe eco. La crisi che ha costretto il governo a rilasciare di corsa migliaia di visti “provvisori” per scongiurare il blocco dei trasporti, è solo un esempio della scoperta di quanto l'economia britannica dipenda dagli immigrati. La lezione però non sembra sia servita. Qua e là, dagli Usa all'Europa, Polonia, Austria, Ungheria, continuano a sorgere muri, e sempre più se ne invocano. Come se gli immigrati fossero la causa di tutti i problemi dell'Occidente. Ma il problema è diverso, e riguarda l'essenza stessa della democrazia. «Ogni generazione, mentre cerca di promuovere il bene comune – disse Benedetto XVI parlando nel 2010 al Parlamento britannico – deve chiedersi sempre di nuovo: quali sono le esigenze che i governi possono ragionevolmente imporre ai propri cittadini, e fin dove esse possono estendersi? A quale autorità ci si può appellare per risolvere i dilemmi morali? Queste questioni ci portano direttamente ai fondamenti etici del discorso civile. Se i principi morali che sostengono il processo democratico non si fondano, a loro volta, su nient'altro di più solido che sul consenso sociale, allora la fragilità del processo si mostra in tutta la sua evidenza. Qui si trova la reale sfida per la democrazia».
Perché, dunque, meravigliarsi se la settimana scorsa, a Lesbo durante la visita in Grecia e a Cipro, Papa Francesco ha parlato del dramma dell'immigrazione come di un «naufragio di civiltà»? E perché sorprendersi se, al ritorno da quel viaggio, in aereo, ha detto che per la democrazia «il pericolo si ha quando c'è il populismo e quando c'è una superpotenza che detta i comportamenti culturali, economici e sociali»? Perché? Sono forse parole troppo “forti” per le nostre orecchie delicate e viziate, per le nostre coscienze intorpidite, vigliacche? Eppure questa è la verità, di fronte alla quale, ha detto Francesco sempre a Lesbo, dobbiamo superare «la paralisi della paura, l'indifferenza che uccide, il cinico disinteresse che con guanti di velluto condanna a morte chi sta ai margini. Vi prego, fermiamo questo naufragio di civiltà… Troviamo il coraggio di vergognarci davanti ai volti dei bambini». Perché sul problema delle migrazioni, sulla capacità di accoglienza, si gioca «il futuro di tutti, che sarà sereno solo se sarà integrato. Solo se riconciliato con i più deboli l'avvenire sarà prospero. Perché quando i poveri vengono respinti si respinge la pace. Chiusure e nazionalismi – la storia lo insegna – portano a conseguenze disastrose». Ma noi lo impareremo mai?
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