«E vi dico che Marco Polo dimorò in quei paesi ben trentasei anni, e poi, trovandosi in prigione a Genova, dettò tutte le cose viste a messer Rustico da Pisa, suo compagno di prigionia in quel periodo». Siamo all'inizio del libro che svelò all'Occidente le meraviglie del lontano, mitico mondo orientale, Il Milione. Fu una detenzione breve (e di riguardo), quella del famoso mercante e ambasciatore del Gran Khan tornato a Venezia a sistemare i conti in banca, catturato in una battaglia tra veneziani e genovesi. Ma queste righe svelano una necessità del nostro essere: noi possiamo viaggiare e conoscere tutto il mondo, avventurarci seguendo l'istinto ulissico del grande mercante veneziano, uomo pratico ma curioso fino allo spasimo; vedere, stupirci e conoscere paesi, terre fiumi, palazzi, gemme e tessuti mai visti. Ma se poi non sostiamo, tutto quel mondo scomparirebbe con noi. Le meraviglie viste da Polo si sarebbero dissolte con la sua vita. Ma Polo dettò, rese memoria e nuova realtà ciò che era apparso ai suoi occhi. Non auguro a nessuno di noi la prigionia, ma la metafora scorre: se fosse anche un incidente, a costringerci a rendere comuni le meraviglie a cui abbiamo assistito, quella sosta forzata non sarà stata inutile, o casuale. Anche in questi casi Dio non gioca a dadi.
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