Quando si parla di come dovrebbe essere la vera integrazione degli immigrati a me vengono in mente i cosiddetti quartieri modello del nord Europa: ad esempio quello di Rinkeby a Stoccolma. Ci arrivai con la metropolitana blu T10 che porta a Hjulsta, non distante dall'aeroporto di Arlanda. All'uscita sembrava di essere a Mogadiscio. Non si vedeva uno svedese. Era tutto ordinato e funzionale: biblioteche, scuole, servizi, impianti sportivi. Pareva evidente che quel sistema organizzativo si prendeva carico degli aspetti economici, non di quelli profondi legati al confronto autentico fra le persone. Anche a Molenbeek, alla periferia di Bruxelles, dove erano cresciuti i terroristi parigini che avevano messo le bombe al Bataclan, ebbi la medesima impressione. E perfino a Saint Denis, nella capitale francese, nell'autobus che passava accanto allo stadio di calcio, sentivo che il problema del rapporto umano diretto era stato soltanto evitato. Noi italiani, fra tanti ritardi, resistenze, equivoci e fraintendimenti, lo stiamo affrontando: si tratta di un'impresa non trascurabile di cui dovremmo andar fieri, anche mettendo in conto l'ostacolo di chi rifiuta questo lavoro decisivo. Il luogo per farlo resta la scuola: avanti ragazzi! Dovete essere voi l'acqua che batte sullo scoglio.
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