Per la terza stagione consecutiva Max Giusti è tornato alla guida di Boss in incognito, il docu-reality in onda il lunedì in prima serata su Rai 2 che racconta le storie di imprenditori che per una settimana lavorano a fianco dei loro dipendenti sotto mentite spoglie, grazie a trucco e parrucco, seguiti dalle telecamere con la scusa di realizzare un programma sul mondo dell’imprenditoria e del lavoro. Per cui i dipendenti non sanno di lavorare con il boss (anche se a volte lo riconoscono), ma sono comunque coscienti di parlare e agire mentre vengono ripresi. Il che è condizionante, quantomeno riduce la spontaneità. Il docu-reality finisce così per snaturarsi. Premesso questo, lunedì scorso è stata la volta di Angelo Pinto, direttore generale di un’azienda con 250 dipendenti che produce sistemi oscuranti, tapparelle, box doccia e porte a soffietto. E come nelle due precedenti edizioni (a differenza di quelle condotte da Costantino della Gherardesca, Flavio Insinna, Nicola Savino e Gabriele Corsi), anche Max Giusti si trasforma in un operaio di origine cilene che in alcune occasioni sostituisce il boss camuffato. In quasi due ore e mezzo (un po’ tante per la verità) sono previsti momenti diversi: c’è la parte più divertente che è quella quando il boss truccato in modo irriconoscibile si presenta ai familiari; c’è la settimana del lavoro sotto copertura e c’è il finale dai toni melodrammatici con una discreta dose di retorica e un taglio decisamente buonista quando il boss si svela ai dipendenti, li riprende, ma il più delle volte li premia. In questa fase ci si commuove e si piange molto, anche troppo, pur concedendo che un po’ di buonismo ogni tanto non guasta, così come il mettere in scena persone che amano il proprio lavoro. E il bello è che molti di loro sono immigrati.
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