martedì 24 marzo 2020
C'è una casa di riposo, a Mediglia, poco lontano da Milano, dove sono morti 40 ospiti su 100. Altre, in cui il virus si è insinuato dall'abbraccio di un nipote, e invisibile, impercettibile, si è allargato nelle camere, nelle notti, tra i gemiti e il respiro affannoso dei ricoverati. E ha toccato bicchieri, salviette, banali oggetti che si usano senza pensarci, e attraverso questi si è moltiplicato in modo esponenziale. Contagiando anche gli infermieri, e gli inservienti. Molti sono rimasti, alcuni, quando hanno capito, se ne sono andati.
Ma ciò che più mi colpisce in questa strage di uomini e donne coi capelli bianchi è che sono morti senza una persona cara accanto. Dagli ospedali, in molti sono stati rimandati indietro: non c'era tempo, per curare pazienti tanto vecchi e malati. Tornati all'ospizio, neanche lì l'epidemia ha permesso ai figli di entrare nelle loro stanze. Le generazioni del 1930 e 1940 in Italia hanno avuto tanti figli, tre a testa, alcuni di più, nel Paese risorto dalla guerra. Penso alle madri pallide, le braccia scarnite, che sono morte a Bergamo, Brescia, Piacenza: donne che misero al mondo nidiate di bambini. E mesi di attesa, e notti dolorose di travaglio, in casa, ancora, come si usava allora. E ogni volta il nuovo nato, strillante, infreddolito, stretto al petto si calmava, ritrovando il già conosciuto battito del cuore. Culle, odore di latte, notti insonni, primi sorrisi. Passi incerti e prime corse audaci. Cortili pieni di bambini e di grida. Le madri che scandivano la fine della giornata chiamando dalla finestra: «A tavola!» E carezze, e qualche meritato schiaffo, e sgridate, e abbracci, e poi loro che diventavano grandi. Abbracci, quanti abbracci. Le madri, ora, a aspettare la morte senza una carezza. (Che desiderio, ora, in quei
figli, di ritrovarle in cielo).
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